Disarmo per la giustizia climatica e la salute

Disarmament for Climate Justice and Health

Delegazione dell’IPPNW alla COP28

Si sta svolgendo dal 30 novembre al 12 dicembre negli Emirati Arabi Uniti la 28esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28). Per la prima volta, l’IPPNW ha inviato una delegazione internazionale ufficiale alla COP per garantire che la salute umana e ambientale sia al centro del processo decisionale.

Come medici e operatori sanitari avvertiamo che la crisi climatica, la militarizzazione e le armi nucleari rappresentano una grave minaccia per la salute globale.

Allo stesso tempo, si possono ottenere enormi benefici per la salute superando la nostra “dipendenza dai combustibili fossili” e il bisogno distruttivo di giochi di potere militarizzati. In un momento di speranza: per la prima volta i temi della salute e della pace faranno parte del programma della COP il 3 dicembre 2023.


Gli appelli dell’IPPNW a tutti gli Stati alla COP28:

  1. Le emissioni militari di gas serra accelerano il collasso climatico, ponendo una grave minaccia per la salute e il clima. Dovrebbero essere inclusi nei negoziati e sotto la rendicontazione vincolante dell’UNFCC per raggiungere la soglia di 1,5°C.
  2. La corsa agli armamenti globale minaccia la salute e il clima. Il disarmo e la smilitarizzazione possono contribuire a finanziare la mitigazione del clima. La cooperazione e la sicurezza umana dovrebbero essere al centro della politica e del processo decisionale.
  3. L’energia nucleare non è una soluzione al cambiamento climatico, ha gravi conseguenze sulla salute durante il suo ciclo di vita e aumenta il rischio di proliferazione nucleare. Cessare la creazione di nuove centrali nucleari, attuare la rapida eliminazione della produzione di energia nucleare e passare a una transizione giusta verso l’energia rinnovabile.
  4. Le armi nucleari rappresentano una grave minaccia per la salute del pianeta e di tutte le sue forme di vita. Gli accordi sul clima dovrebbero sollecitare tutti i governi ad aderire al Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari il prima possibile.

Nel dettaglio:

1. La militarizzazione e la corsa agli armamenti globale in corso stanno esacerbando la catastrofe climatica

Si stima che l’attività militare contribuisca al 5,5% delle emissioni globali di gas serra rispetto al 4,4% del settore sanitario globale (anche se lo scopo di uno è uccidere e distruggere mentre l’altro è destinato a sostenere la vita). Tuttavia, secondo l’UNFCCC, la loro segnalazione rimane volontaria e i dati ufficiali per paese rimangono scarsi. Gli studi mostrano sempre più l’impatto delle emissioni di carbonio a livello militare, vale a dire che nel 2017 il Pentagono è stato responsabile di più emissioni di carbonio rispetto a paesi come Svezia o Danimarca. Gli effetti climatici e ambientali delle guerre sono ancora meno presi in considerazione. I ricercatori hanno scoperto che i primi 12 mesi di guerra in Ucraina hanno prodotto 119 milioni di tonnellate di CO2, tanto quanto il Belgio ha prodotto nello stesso periodo. Mentre gli eserciti e gli attori della difesa elaborano strategie climatiche, non vi è alcuna prova che un “rinverdimento” delle forze armate sia possibile. Anche se lo fosse, i cicli di produzione e di durata delle attrezzature militari superano di gran lunga la finestra temporale di chiusura per l’azione per il clima. L’aereo da caccia F-35, ad esempio, produce 28 t di CO2 con un pieno di carburante, equivalente all’impronta di CO2 media annua di 4 cittadini tedeschi o 70 cittadini kenioti. Si prevede che l’F-35 diventi la pietra angolare della potenza aerea della NATO e degli alleati degli Stati Uniti e che opererà fino al 2070.

Dobbiamo dimezzare le emissioni entro il 2030 per rimanere entro il limite di 1,5 gradi e garantire così la salute umana e planetaria. Dobbiamo affrontare le emissioni militari.

2. La spesa militare globale è più alta che mai, dirottando risorse dall’azione per il clima

Nel 2022 la spesa militare mondiale è salita a 2.240 miliardi di dollari, 82,9 miliardi di dollari sono stati spesi solo per le armi nucleari. Affrontare la catastrofe climatica richiederà finanziamenti per la mitigazione, l’adattamento e le perdite e i danni, una delle principali questioni negoziate alla COP28. Il Fondo verde per il clima e altri strumenti finanziari per l’azione climatica sono notoriamente sottofinanziati. L’ultimo rapporto dell’IPCC afferma chiaramente che lo spazio fiscale potrebbe dover provenire da altre fonti e che “moderate riduzioni della spesa militare (che potrebbero comportare la risoluzione dei conflitti e accordi transnazionali sulle limitazioni degli armamenti) potrebbero liberare considerevoli risorse per l’agenda degli SDG”. Un rapporto di diverse ONG, tra cui IPPNW Germania, ha rilevato che 1,26 trilioni di dollari di spesa militare della NATO nel 2023 coprirebbero la promessa non mantenuta delle nazioni più inquinanti di finanziamenti per il clima di 100 miliardi di dollari all’anno per 12 anni, o l’adattamento e la mitigazione del clima dei paesi africani per 4 anni. anni. Invece, gli eserciti e l’industria degli armamenti stanno utilizzando il cambiamento climatico come argomento per aumentare i budget e le capacità militari. Le armi vengono esportate verso paesi vulnerabili dal punto di vista climatico e che stanno vivendo conflitti violenti, esacerbando così il doppio impatto della violenza e della crisi climatica.

3. L’energia nucleare è un vicolo cieco nella ricerca di energia pulita

Di fronte alla crisi climatica, alcuni stanno proponendo una soluzione apparentemente semplice senza emissioni di carbonio: l’energia nucleare. Ma in realtà, l’energia nucleare è troppo insignificante nel confronto globale, troppo lenta e troppo costosa per la decarbonizzazione rapidamente necessaria e troppo pericolosa per le persone e la natura per essere più di una distrazione senza alcun effetto reale e tempestivo sull’azione per il clima. Al contrario, l’assoluta incompatibilità delle grandi e rigide centrali elettriche con le fonti di energia rinnovabile rende l’energia nucleare più un freno che una soluzione. I principali motori dell’energia nucleare rimangono ancora gli Stati dotati di armi nucleari. Dei 195 paesi del mondo, 33 attualmente gestiscono centrali nucleari. Oltre la metà (57%) dell’elettricità generata da queste centrali nucleari è prodotta da soli tre paesi: gli Stati Uniti, il più grande produttore mondiale di energia nucleare, seguiti da Cina e Francia. Con la Russia al quarto posto in questa classifica e la Corea del Sud al quinto, questi cinque paesi da soli hanno rappresentato il 71% dell’energia nucleare generata a livello mondiale nel 2021.

L’energia nucleare è costosa e inaffidabile, sta perdendo importanza rispetto alla produzione complessiva di elettricità, è in ritardo rispetto alle energie rinnovabili in termini di rapporto costo-efficacia e produzione ed è quindi obsoleta. E l’energia nucleare rimane pericolosa: le sue conseguenze radiotossiche e i rischi per la salute lungo l’intera catena del combustibile, dalla miniera di uranio alla questione dello stoccaggio finale, rimangono un fardello irrisolto per le generazioni future.

4. Le armi nucleari minacciano un cambiamento climatico catastrofico

Le armi nucleari rappresentano una grave minaccia esistenziale per la salute umana e ambientale. Una cosiddetta guerra nucleare “limitata” avrebbe conseguenze climatiche catastrofiche a livello globale. Un nuovo studio dell’IPPNW mostra che una guerra nucleare tra India e Pakistan, entrambi stati dotati di armi nucleari e spesso in conflitto, che utilizzi meno del 3% degli arsenali nucleari mondiali, potrebbe uccidere fino a una persona su tre sulla terra. Lasciando intatto il 97% delle armi nucleari del mondo, questo scenario plausibile altererebbe il clima mondiale in modo tale da ridurre i tempi di raccolta dei cereali di base da cui dipendono molte popolazioni, portando a una carestia globale nei decenni a seguire.

Anche quando le armi nucleari non vengono utilizzate, il loro mantenimento e produzione sottrae fino a 82,9 miliardi di dollari all’anno che potrebbero essere destinati agli investimenti necessari in energie rinnovabili, finanziamento di perdite e danni e altri sforzi di mitigazione del clima. Inoltre, la sola produzione di armi nucleari provoca immensi danni umani e ambientali.

La soluzione alla crisi climatica deve includere il disarmo nucleare.


Side event at COP28 – by Bimal Khadka
Side event at COP28 – by Bimal Khadka
Side event at COP28 – by Bimal Khadka

IPPNW Statement to the second Meeting of States Parties to the TPNW

Riportiamo qua tradotto l’intervento della dott.ssa Sally Ndung’u (Kenya), membro del board di IPPNW, al 2° Meeting degli Stati Parte al Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW).


L’intervento della dott. Sally Ndung’u

Gentile Presidente, stimati Delegati e Colleghi,

Mi chiamo Sally Ndung’u, medico e specialista in sanità pubblica del Kenya. Grazie per questa opportunità di parlare a nome dei medici internazionali per la prevenzione della guerra nucleare. Essendo io stessa un professionista sanitario, ho l’obbligo morale e professionale di chiedere un futuro più sicuro e più sano senza armi nucleari.

Illustri delegati – A quasi 80 anni dall’inizio dell’era nucleare, siamo sopravvissuti non grazie a leader saggi, o a una solida dottrina militare, o a una tecnologia infallibile, ma grazie alla fortuna. E ora, gli eventi dell’ultimo anno hanno messo a nudo quanto sia profondamente pericoloso scommettere sulla sicurezza del mondo sulla speranza di una buona fortuna indefinita. Come professionisti medici, ci siamo impegnati a dedicare la nostra vita al servizio dell’umanità, ma la minaccia incombente di una guerra nucleare ci toglie la speranza di onorare questo impegno.

Delegati, in caso di guerra nucleare, qualsiasi tentativo da parte della comunità medica di offrire cure e cure alle vittime, compresi noi, sarà probabilmente inutile. Dobbiamo quindi concentrarci sulla prevenzione primaria garantendo che le armi nucleari non vengano mai più utilizzate. Il TPNW fornisce infatti un chiaro percorso legale e morale per sradicare questi strumenti di distruzione di massa indiscriminata.

Una nuova ricerca condotta dopo il Primo Incontro degli Stati Parte ha rivelato che una guerra nucleare sarebbe molto più catastrofica di quanto pensassimo in precedenza. In effetti, anche una cosiddetta guerra nucleare “limitata” o “regionale” sarebbe un evento su scala planetaria; mandando in crisi il clima, le catene di approvvigionamento alimentare globale e, probabilmente, l’ordine pubblico. Le conseguenti carestie e disordini porterebbero alla fame e alla morte di 2 miliardi di persone nei primi due anni. Anche nella mia regione, molto lontana dalle esplosioni nucleari, agli africani innocenti non verrebbero risparmiati questi orrori indiretti. Una guerra su larga scala tra Stati Uniti e Russia causerebbe un completo inverno nucleare e una carestia globale che ucciderebbe più di 5 miliardi di persone nei primi due anni.

Nonostante questi rischi devastanti, quasi inimmaginabili, tutti e nove gli stati dotati di armi nucleari continuano a:

– spendere ingenti somme di denaro per migliorare e ampliare i propri arsenali nucleari; investimenti che potrebbero altrimenti essere utilizzati per affrontare bisogni umanitari urgenti come l’accessibilità a una corretta alimentazione, servizi igienico-sanitari e assistenza sanitaria;

– violare gli obblighi in materia di disarmo previsti dall’articolo VI del TNP;

– e impegnarsi in attività destabilizzanti, tra cui lo svolgimento di due guerre violente, di cui una dove è stato minacciato in modo esplicito e credibile di utilizzare armi nucleari.

Illustri delegati,

Nell’agosto 2023, più di 150 importanti riviste mediche, tra cui The Lancet, British Medical Journal, New England Journal of Medicine e Journal of the American Medical Association hanno pubblicato un editoriale congiunto senza precedenti chiedendo misure urgenti per ridurre il crescente pericolo di guerra nucleare e che tutte le nazioni aderiscano al TPNW. Citando la particolare responsabilità della comunità sanitaria, l’editoriale esorta “le associazioni dei professionisti sanitari a informare i propri membri in tutto il mondo sulla minaccia alla sopravvivenza umana”. A questo proposito, anche le Nazioni Unite e le sue Agenzie Specializzate hanno un ruolo fondamentale da svolgere.

Nel 1980, il Segretario generale delle Nazioni Unite pubblicò uno studio completo sulle armi nucleari. Nel 1983 e nel 1987, l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicò edizioni successive del suo storico rapporto “Effetti della guerra nucleare sulla salute e sui servizi sanitari”. Questi rapporti, pubblicati più di 30 anni fa, sono ormai obsoleti poiché da allora sono emerse molte nuove prove rilevanti.

Sebbene l’Istituto delle Nazioni Unite per la ricerca sul disarmo abbia pubblicato rapporti sulle armi nucleari e sul disarmo, pochissime altre agenzie delle Nazioni Unite si sono impegnate in questioni relative alle armi nucleari in modo sostanziale o continuativo. Eppure la guerra nucleare avrebbe profonde implicazioni per ogni sfera dell’attività umana.

Illustri delegati,

Quest’anno, la prima priorità individuata nella “Nuova agenda per la pace” del Segretario generale delle Nazioni Unite è l’eliminazione delle armi nucleari. Esortiamo pertanto tutti gli Stati parti del TPNW a sviluppare ed estendere il lavoro del gruppo consultivo scientifico adottando le seguenti misure in occasione del 2MSP:

(a) Sollecitare e sostenere l’Organizzazione Mondiale della Sanità a convocare un comitato internazionale di esperti per produrre un rapporto del 21° secolo sugli effetti della guerra nucleare sulla salute e sui servizi sanitari. Uno dei modi più efficaci per sostenere questo lavoro sarebbe che gli Stati fornissero i finanziamenti necessari;

(b) Sollecitare il Segretario Generale NU a produrre un nuovo rapporto globale sulle armi nucleari, con il contributo di tutte le agenzie competenti delle Nazioni Unite;

(c) Richiedere al gruppo consultivo scientifico TPNW di incoraggiare, assistere e, ove opportuno, contribuire a queste iniziative.

Illustri delegati,

Questo secondo incontro degli Stati parte del TPNW avviene in un momento di straordinario pericolo in cui il mondo sta camminando come un sonnambulo verso una catastrofe nucleare di portata inimmaginabile. È ora di svegliarsi, prima che il nostro incubo diventi realtà. Da questo Incontro deve emergere un chiaro appello all’azione che il mondo non può ignorare.

Grazie.

Trattato CFE e sicurezza comune, addio

L’analisi del prof. Pascolini parte dalle origini del Trattato e fino all’ultimo atto di ritiro da parte della Russia.

“Se n’è andato un altro pezzo dell’architettura di accordi che hanno reso piena di speranze la breve stagione della fine della guerra fredda. Il Trattato sulle armi convenzionali in Europa era già malandato da un pezzo e la sua fine prevista da mesi, ma l’atto finale lascia comunque l’amaro in bocca.”

 

Il 7 novembre si sono compiuti i tempi previsti per la procedura di ritiro della Russia dal Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (CFET), in vigore dal 9 novembre 1992; al contempo, la Russia si è ritirata da altri due accordi indissolubilmente legati al CFET: l’Accordo di Budapest (3 novembre 1990) e il Flank Document del 31 maggio 1996. Il primo venne concluso per determinare i livelli di armi convenzionali per ciascuno dei partecipanti all’allora Patto di Varsavia, mentre il secondo è servito a risolvere temporaneamente il problema delle restrizioni sulle zone europee periferiche, sorto in relazione alla cessazione dell’Unione Sovietica.

I 22 membri della NATO parte del trattato (Belgio, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti) e la Svezia hanno immediatamente preso atto della decisione russa e, a loro volta, hanno sospeso completamente l’attuazione del trattato a partire del 7 dicembre.

Il trattato era già estremamente indebolito: Mosca aveva sospeso l’attuazione del CFET il 12 dicembre 2007 e aveva smesso di partecipare alle riunioni settimanali del Gruppo consultivo misto l’11 marzo 2015. I firmatari della NATO avevano sospeso l’attuazione del trattato con la Russia il 22 novembre 2011, ma avevano continuato ad applicarlo con altre sette parti: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Moldavia e Ucraina.

Ora un altro grande trattato di controllo degli armamenti ereditato dal secolo scorso ha seguito la sorte funesta degli altri importanti accordi su questioni chiave del disarmo messi a punto quando sembrava possibile la formazione di una nuova architettura di sicurezza globale ed europea basata sulla cooperazione.

 

Il Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa

Il Trattato CFE fu negoziato e concluso durante gli ultimi anni della Guerra fredda e stabilì limiti globali su categorie chiave di equipaggiamento militare convenzionale in Europa, imponendo la distruzione degli armamenti in eccesso. Il trattato proponeva limiti uguali per i due “gruppi di stati-parte”, la NATO e il Patto di Varsavia.

Il negoziato del CFET venne condotto nella cornice dei fini della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), che portò all’Atto finale di Helsinki del 1975 comprendente disposizioni per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei trentacinque firmatari, per la promozione del commercio e per la tutela dei diritti umani. I paralleli negoziati sulla Riduzione reciproca ed equilibrata delle forze (MBFR) invece si protrassero dal 1973 senza successo, fino al blocco da parte sovietica nel 1979 a seguito della decisione della NATO di introdurre in Europa missili a gittata intermedia.


Nel 1986, Mikhail Gorbaciov propose, nel contesto dei negoziati MBFR, di ridurre le forze terrestri e aeree, includendo le armi convenzionali e nucleari “dall’Atlantico agli Urali”. I negoziati per stabilizzare l’equilibrio militare convenzionale in Europa iniziarono nel gennaio 1989 e portarono alla firma del CFET il 19 novembre 1990.

Il preambolo del CFET ne precisa “gli obiettvi: realizzare un equilibrio sicuro e stabile delle forze armate convenzionali in Europa a livelli più bassi di quelli sinora esistenti, eliminare disparità pregiudizievoli per la stabilità e la sicurezza, e impedire, in via altamente prioritaria, la capacità di lanciare attacchi di sorpresa e di avviare azioni offensive su larga scala in Europa”. A tal fine i quantitativi totali degli armamenti convenzionali in Europa vengono limitati a 40.000 carri armati, 40.000 pezzi di artiglieria, 60.000 veicoli corazzati da combattimento, 13.600 aerei da combattimento e 4.000 elicotteri d’attacco, divisi ugualmente fra le due parti.

Oltre alla riduzione delle forze armate e alla loro distribuzione in precise zone territoriali, il trattato impone alle parti:

  1. scambiarsi annualmente informazioni militari, tra cui l’organizzazione e la geolocalizzazione delle forze armate di ciascun paese, dal livello del ministero della difesa fino ai battaglioni separati, nonché le dotazioni di ciascuna unità di carri armati, mezzi corazzati, pezzi di artiglieria, aerei da combattimento ed elicotteri d’attacco;
  2. notificare gli aggiornamenti relativi a dispiegamenti militari significativi in entrata, in uscita o all’interno della zona di applicazione del trattato;
  3. richiedere e accettare ispezioni;
  4. partecipare alle riunioni del Gruppo consultivo misto creato a Vienna.

L’esito di questi negoziati è stato parallelo a cambiamenti epocali, in quanto la Germania era in fase di riunificazione, il Patto di Varsavia si stava sgretolando e la Lituania stava guidando l’uscita delle repubbliche baltiche dall’Unione Sovietica. Per complicare ulteriormente le cose, lo Stato maggiore sovietico cercava di proteggere i suoi investimenti con misure contabili creative e ritiri anticipati, azioni che Gorbaciov sembrava difficilmente in grado di controllare. Il Trattato CFE non fu completato prima di dover essere rivisto per tener conto del crollo dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991).

Una revisione del trattato si rendeva necessaria per adattarlo alla nuova situazione geopolitica, ma, come dichiarò la Russia il 12 dicembre 2007, motivando il suo ritiro, “il Trattato, firmato durante la Guerra fredda, ha smesso da tempo di rispondere alle realtà europee contemporanee e ai nostri interessi di sicurezza. La sua versione adattata non è potuta entrare in vigore da otto anni a causa della posizione dei paesi della NATO che hanno legato la sua ratifica al soddisfacimento da parte della Russia di requisiti inverosimili che non hanno nulla a che fare con il Trattato CFE. Inoltre, hanno intrapreso una serie di passi incompatibili con la lettera e lo spirito del Trattato, minando gli equilibri che ne sono alla base.”

Il bilancio del Trattato CFE è comunque positivo, avendo agevolato una trasformazione non traumatica della situazione politica europea e portato allo smantellamento di 52.000 pezzi di importanti equipaggiamenti militari, consentendo al contempo oltre 4.000 ispezioni.

Inoltre, come ricorda la Russia nel comunicato del 7 novembre, “anche dopo un brusco cambiamento della situazione geopolitica e geostrategica – la fine del Patto di Varsavia e poi dell’Unione Sovietica – quando la Russia è stata costretta a ridurre e riformare le proprie forze armate, e allo stesso tempo a combattere il terrorismo, il Trattato le ha fornito garanzie materiali di sicurezza. Ad esempio, il Trattato CFE ha permesso di rendere il processo di riduzione delle forze non unilaterale, ma reciproco, coinvolgendo i paesi della NATO, in primis la Germania; il potenziale militare totale degli allora membri dell’alleanza è stato in qualche modo limitato e messo sotto controllo. Tutto ciò ha permesso alla Russia di utilizzare più liberamente le forze armate per risolvere il compito prioritario di garantire la sicurezza interna e l’integrità territoriale e di combattere il separatismo e l’estremismo.”

 

La sicurezza comune

Il trattato CFE trova la sua origine nello “sforzo di sostituire la confrontazione militare con un nuovo modello di relazioni di sicurezza fra tutti gli stati basato sulla cooperazione pacifica e in tal modo di contribuire al superamento della divisione dell’Europa”. Il modello cui fa riferimento era stato messo a punto dalla Commissione indipendente sul disarmo e le questioni di sicurezza, presieduta dall’ex primo ministro svedese Olof Palme, che introdusse nel linguaggio del dibattito internazionale il nuovo concetto di “sicurezza comune”, termine scelto come titolo del suo primo rapporto, presentato il 25 aprile 1982.

L’idea di base della sicurezza comune non è complessa. È che nessun paese può ottenere la sicurezza, nel lungo periodo, semplicemente prendendo decisioni unilaterali sul proprio dispiegamento militare. Questo perché la sicurezza dipende anche dalle azioni e dalle reazioni dei potenziali avversari. La sicurezza deve essere trovata in comune con questi avversari: “gli stati non possono più cercare la sicurezza a spese degli altri; essa può essere ottenuta solo attraverso impegni di cooperazione”. Secondo la Commissione, la sicurezza è condivisa, non un gioco “a somma zero”.

La commissione, composta di 17 personalità politiche di alto livello (al momento non al governo) di diversi contesti nazionali e politici (con una cultura prevalentemente social-liberale) dall’Est e dall’Ovest, dal Nord e dal Sud, fu lanciata a Vienna nel settembre 1980 e fino al 1982 si incontrò 12 volte in varie capitali mondiali, con l’obiettivo di “portare nuove idee e pensieri sul tema del disarmo”.

Negli anni successivi alla pubblicazione del rapporto, l’idea di una sicurezza comune e di una “difesa non offensiva” si è diffusa attraverso diversi canali e in forme differenti in diversi paesi dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, a regioni come l’Asia-Pacifico e all’Unione Sovietica.

A livello nucleare, la sicurezza comune ha prodotto un’alternativa concettuale alla deterrenza nucleare reciproca e alle sue controverse versioni di effettivo impiego bellico “limitato”. A livello convenzionale, la difesa non offensiva offriva una via d’uscita dal dilemma della sicurezza in una serie di situazioni difficili come, appunto, l’Europa centrale, la penisola coreana e la linea di confine russo-cinese-indiana.

La Commissione sottolineava l’importanza delle Nazioni Unite e proponeva un’ampia gamma di misure di disarmo, controllo degli armamenti e rafforzamento della fiducia (CBM), compresa l’adozione di politiche militari meno minacciose. Infine, ha introdotto l’idea emergente secondo cui il problema della sicurezza non dovrebbe limitarsi alle sfide militari alla sicurezza dello stato, ma dovrebbe includere minacce non tradizionali alla popolazione e all’ambiente.

Ora, l’atto formale della cessazione del trattato FCE ci ricorda che si è andato dissolvendo nelle relazioni internazionali lo spirito della sicurezza comune, che non si ritrova più nella politica del tempo presente, in cui, particolarmente le grandi potenze (ma non solo quelle) cercano una propria sicurezza basata su termini di forza, armamenti nucleari ma anche convenzionali avanzati, superando la stessa postura della deterrenza in una rischiosissima corsa alla ricerca di chimeriche posizioni di superiorità militare.

 

Alessandro Pascolini – Università di Padova

16 novembre 2023


Nota: le immagini sono tratte dalla sezione “Guerra Fredda” nel sito www.educolor.itImmagini educative e fotografie

Al Segretario Generale delle Nazioni Unite

Pubblichiamo qui tradotto il messaggio inviato al Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres dai co-Presidenti di IPPNW Dr. Carlos Umana, Dr. Kati Juva e David Onazi, a supporto del discorso tenuto lo scorso 13 ottobre al Consiglio di Sicurezza. Il documento ufficiale è allegato in fondo alla pagina.


Egregio Signor Segretario Generale Guterres,
28 ottobre 2023

Vi scriviamo in qualità di co-presidenti della nostra organizzazione Premio Nobel per la Pace per esprimere il nostro sincero sostegno al vostro eccellente discorso del 13 ottobre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Era equilibrato e, pur esponendo il contesto, lei ha anche chiaramente respinto tale contesto come giustificazione per gli “spaventosi attacchi” del 7 ottobre da parte di Hamas contro cittadini israeliani. Lei ha detto che questi attacchi, tuttavia, non giustificano una punizione collettiva del popolo palestinese.

La cosa più importante è che desideriamo mostrare solidarietà a tutte le persone, come voi, che stanno dalla parte dei cittadini che soffrono le terribili conseguenze della guerra, comunque sia avvenuta. Come medici, è nostro dovere, innanzitutto, che non sia arrecato alcun danno. Il Diritto Internazionale umanitario, nato per l’opera di un’organizzazione medica – la Croce Rossa – estende questo principio a tutta la condotta bellica. I cittadini non devono essere colpiti. Il nostro lavoro come operatori sanitari per aiutare i cittadini in pericolo non deve essere reso impossibile dalla minaccia di bombe che cadono sul nostro luogo di intervento, dalla mancanza di carburante per far funzionare l’elettricità per le nostre attrezzature o per pompare acqua per mantenere in vita i nostri pazienti. Come ben sapete, mentre le bombe radono al suolo Gaza, compresi i centri sanitari, le scuole e i rifugi delle Nazioni Unite, le persone muoiono a causa degli effetti di un blocco disumano che ucciderà coloro che non saranno colpiti per primi dalle bombe.

Non possiamo restare a guardare questo massacro, anche se sosteniamo fermamente la richiesta di ritorno a casa degli ostaggi. Bloccare e radere al suolo Gaza non è il modo per riavere gli ostaggi, né impedirà simili attacchi in futuro. Al contrario, potrebbe alimentare il terrorismo altrove, così che Israele non sarà mai al sicuro e non vivrà mai in pace. Il nostro obiettivo deve essere la pace, la salute e la sicurezza di tutte le persone.

Applaudiamo pertanto alla risoluzione approvata ieri sera dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per una tregua umanitaria a Gaza.

Grazie per le vostre parole coraggiose e grazie alle Nazioni Unite e alle sue organizzazioni per tutto quello che state facendo. Siamo al vostro fianco.

Dr. Carlos Umana, Dr. Kati Juva and David Onazi

Co-Presidents.
International Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW)

 


Nuova guerra in Medio Oriente. Comunicato congiunto da IPB – METO – IPPNW

L’International Peace Bureau (IPB), Middle East Treaty Organization (METO) e International Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW) sono profondamente preoccupate per l’escalation di violenza israelo-palestinese senza precedenti lanciata la mattina di sabato 7 ottobre, che ha già provocato la perdita di centinaia di vite. La paura, il panico e l’incertezza che i cittadini israeliani e palestinesi provano in questi momenti richiedono la nostra compassione e comprensione, anche se la misura in cui il conflitto si intensificherà rimane poco chiara.”

Inizia così il comunicato congiunto che le tre Organizzazioni internazionali hanno rivolto alla comunità mondiale, dopo l’improvviso accendersi del conflitto che sta insanguinando le terre e le popolazioni di Israele e della Palestina. E prosegue:

“Il bilancio delle vittime non può continuare a salire. I firmatari di questa dichiarazione chiedono quindi un’immediata attenzione globale per allentare il conflitto e fornire assistenza umanitaria sul campo. Inoltre, invitiamo la comunità internazionale a sostenere la cessazione immediata degli attacchi, dei rapimenti di civili e degli attacchi alle infrastrutture non militari. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve essere all’altezza delle responsabilità previste dalla sua Carta per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Dovrebbe urgentemente chiedere a tutte le parti di fermare la violenza e di rispettare e proteggere la vita dei civili, in particolare dei bambini.”

“Non esiste una soluzione militare alla multiforme e complessa crisi tra Israele e Palestina; riconosciamo la profonda sofferenza dei palestinesi e degli israeliani anche sotto lo status quo, compresa la violenza dei coloni, gli attacchi terroristici, la violenza economica e un costante ambiente di paura in caso di violazione del diritto internazionale. Le radici del conflitto sono profonde e possono essere affrontate soltanto quando non è presente violenza immediata e diretta.”

L’appello quindi coinvolge entrambe le parti del conflitto, entrambe responsabili della violenza sui civili. E rivolgendosi in particolare alla Lega degli Stati Arabi per impegnarsi in negoziati sulla base della Arab Peace Initiative.

Esige quindi:

  • Una cessazione immediata della violenza, in particolare degli attacchi contro le infrastrutture civili;
  • Lo scambio immediato di ostaggi e prigionieri per motivi umanitari;
  • La creazione di un corridoio umanitario per il passaggio sicuro dei servizi di emergenza e degli aiuti;
  • La comunità internazionale, in particolare la Lega degli Stati arabi, all’impegno in negoziati basati sull’Arab Peace Initiative (API), l’unica soluzione globale al conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente.
Nota: L’Arab Peace Initiative è un piano di pace globale proposto nel 2002 dall’allora principe ereditario Abdullah dell’Arabia Saudita. L’Iniziativa chiede la fine del conflitto tra Israele e i palestinesi e la normalizzazione delle relazioni tra Israele e l’intero mondo arabo, in cambio del ritiro israeliano dalle aree conquistate da Israele durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Vedi anche:
(da Al Jazeera): https://www.aljazeera.com/news/2010/3/28/the-arab-peace-initiative
(da Middle East Monitor): https://www.middleeastmonitor.com/20210328-remembering-the-2002-arab-peace-initiative/
(da Wikipedia): https://en.wikipedia.org/wiki/Arab_Peace_Initiative

Qua sotto il documento originale: