Sempre a soli 90 secondi dalla fine

Un documento dal prof. Pascolini (Università di Padova) all’annuncio odierno del “Doomsday Clock”.

Quest’anno, il Comitato per la Scienza e la Sicurezza del Bulletin of the Atomic Scientists ha mantenuto le lancette dell’Orologio del Giorno del Giudizio (il Doomsday Clock) a soli 90 secondi dalla mezzanotte, il momento più vicino alla catastrofe globale fin dal 1947.

Il Doomsday Clock ci ricorda quanto sia delicato e incerto l’equilibrio che permette la sopravvivenza dell’umanità in presenza delle armi nucleari e di nuove destabilizzanti tecnologie nell’attuale fase dei cambiamenti climatici che condizionano la vita sul nostro pianeta: ogni anno dal 1947 segna quanto tempo rimane prima della mezzanotte antecedente al giorno del giudizio.

La prima indicazione all’inizio della guerra fredda (1947) fu di mezzanotte meno sette minuti; con l’acquisizione delle armi nucleari da parte dell’URSS (1949) le lancette vennero portate a 3 minuti da mezzanotte; un ulteriore aggravamento (e siamo a meno due minuti) si ha con lo sviluppo delle armi termonucleari (1953). Nel corso degli anni, a fronte dell’evoluzione del confronto nucleare fra le superpotenze e la proliferazione in altri paesi, l’orologio si è allontanato e avvicinato alla mezzanotte; il momento più sicuro si è avuto nel 1991 alla fine della guerra fredda (17 minuti da mezzanotte) per poi via via aggravarsi negli anni successivi per l’incapacità del mondo politico internazionale di superare il confronto nucleare e di affrontare le problematiche legate al cambiamento climatico globale, fino a raggiungere lo scorso anno la distanza estremamente pericolosa di soli 90 secondi.

Oggi, ancora una volta, abbiamo fissato l’Orologio del Giorno del Giudizio a 90 secondi dalla mezzanotte, perché l’umanità continua ad affrontare un livello di pericolo senza precedenti. La nostra decisione non deve essere interpretata come un segnale di alleggerimento della situazione della sicurezza internazionale. Al contrario, i leader e i cittadini di tutto il mondo dovrebbero prendere questa dichiarazione come un avvertimento crudo e rispondere con urgenza, come se oggi fosse il momento più pericoloso della storia moderna. Perché potrebbe esserlo.

Di seguito i contenuti principali del documento presentato il 23 gennaio (https://thebulletin.org/doomsday-clock/current-time/).

Le molte dimensioni della minaccia nucleare

Una risoluzione duratura della guerra russa in Ucraina appare distante e l’uso di armi nucleari in tale conflitto da parte della Russia rimane una seria possibilità. La situazione è aggravata dall’installazione di armi nucleari tattiche in Bielorussia e dalla “sospensione” russa dal trattato New Start e dal suo “ritiro” della ratifica del trattato per il bando dei test nucleari (CTBT), mentre gli Stati Uniti neppure discutono la possibilità della loro ratifica.

L’ultimo anno è stato caratterizzato da relazioni difficili tra le maggiori potenze nucleari – Cina, Russia e Stati Uniti – impegnate in vigorosi programmi di modernizzazione nucleare che minacciano di scatenare una triplice corsa agli armamenti nucleari, mentre l’architettura mondiale del controllo degli armamenti continua a crollare.

L’Iran continua ad arricchire l’uranio fino ad avvicinarsi al grado necessario per un’arma, mentre gli sforzi per ripristinare l’accordo sul nucleare iraniano sembrano destinati all’insuccesso, anche per la crescente reciproca ostilità fra gli USA e l’Iran.

Il programma nucleare della Corea del Nord continua ad avanzare costantemente in parallelo allo sviluppo di missili a lunga e lunghissima gittata. In risposta, la Corea del Sud ha chiesto un maggiore impegno nucleare americano per la sua difesa, cosa che potrebbe non bastare a placare l’appetito della Corea del Sud per una propria forza deterrente.

India e Pakistan continuano ad accumulare armi nucleari e sistemi di lancio. Le prospettive per la cooperazione e la riduzione delle minacce nella regione rimangono desolanti.

La guerra a Gaza tra Israele e Hamas ha il potenziale di degenerare in un più ampio conflitto mediorientale che potrebbe rappresentare una minaccia imprevedibile a livello regionale e globale.

Le inquietanti prospettive del cambiamento climatico

Il mondo nel 2023 è entrato in un “territorio inesplorato” per quanto riguarda gli impatti climatici. L’anno scorso è stato il più caldo mai registrato, con condizioni estreme – tra cui incendi massicci, inondazioni su larga scala e ondate di calore prolungate – e il ghiaccio marino antartico ha raggiunto la minima estensione dall’avvento dei dati satellitari, circa 2,67 milioni di chilometri quadrati al di sotto della media 1991-2023.

Inoltre, la maggior parte delle perdite di vite umane (oltre il 90%) e la maggior parte delle perdite economiche (si stima il 60%) in tutto il mondo a causa di disastri legati alle condizioni meteorologiche si è verificata nei paesi in via di sviluppo, evidenziando l’iniqua distribuzione degli impatti climatici.

Le emissioni globali di gas serra hanno continuato ad aumentare, raggiungendo il record di 57,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente. Il mondo rischia di superare già entro il 2027 l’obiettivo dell’accordo di Parigi sul clima (mantenersi sotto 1,5 °C sopra i livelli pre-industriali) a causa dell’insufficiente impegno a ridurre le emissioni di gas serra. Per arrestare l’ulteriore riscaldamento, il mondo deve raggiungere emissioni nette di anidride carbonica pari a zero.

Oltre a questi fattori preoccupanti, è incoraggiante il fatto che nel mondo si stiano registrando investimenti record e in crescita nelle energie rinnovabili, superando quelli per combustibili fossili, ma nonostante tali segnali di speranza, per arrestare l’ulteriore riscaldamento l’economia mondiale deve raggiungere emissioni nette di anidride carbonica pari a zero, e prima lo si farà, minore sarà la sofferenza umana dovuta agli sconvolgimenti climatici.

Evoluzione crescente delle minacce biologiche

La rivoluzione delle scienze della vita e delle tecnologie associate è in continua espansione, soprattutto grazie all’aumento dell’efficienza delle tecniche di ingegneria genetica. La convergenza degli strumenti emergenti di intelligenza artificiale e delle tecnologie biologiche potrebbe fornire informazioni che consentirebbero a stati, gruppi subnazionali e attori non statali (anche privi di sufficienti competenze) di creare agenti biologici più dannosi e trasmissibili.

Organizzazioni terroristiche continuano a perseguire agenti e armi biologiche e gli eventi attuali aumentano la preoccupazione per il possibile uso di agenti biologici da parte di gruppi terroristici in Medio Oriente e altrove.

Altri due tipi di rischi biologici continuano a destare preoccupazione: il rilascio accidentale di organismi dai laboratori e le malattie infettive che si verificano naturalmente, soprattutto quelle con potenziale pandemico. La deforestazione, l’urbanizzazione e i cambiamenti climatici continuano a destabilizzare le relazioni microbo-ospite e a facilitare l’emergere di malattie infettive. Con l’aumento del numero di laboratori e della quantità di ricerche rischiose e con l’incapacità di standardizzare le pratiche di laboratorio sicure e di istituire un’adeguata supervisione della ricerca, il rischio di rilascio accidentale di agenti patogeni pericolosi si sta aggravando.

I pericoli dell’intelligenza artificiale (AI) e di altre tecnologie dirompenti

Uno degli sviluppi tecnologici più significativi dell’ultimo anno ha riguardato il drammatico progresso dell’intelligenza artificiale generativa. Se alcuni autorevoli esperti esprimono preoccupazione per rischi esistenziali derivanti da ulteriori rapidi progressi nel settore, altri concentrano l’attenzione sulle minacce reali e immediate che l’AI pone.

L’AI è una tecnologia chiaramente dirompente e i recenti sforzi per una governance globale dell’AI dovrebbero essere ampliati.

Il caos, il disordine e le disfunzioni crescenti nel nostro ecosistema informativo minacciano la democrazia e la nostra capacità di affrontare sfide difficili, ed è evidente che l’AI ha un grande potenziale per accelerare enormemente questi processi di corruzione e deformazione delle informazioni. La corruzione dell’ambiente dell’informazione, abilitata dall’AI, potrebbe essere un fattore importante per impedire al mondo di affrontare efficacemente altre minacce urgenti, come la guerra nucleare, le pandemie e il cambiamento climatico.

L’uso dell’intelligenza artificiale e di altre tecnologie informatiche, combinate con vari sensori per l’analisi in tempo reale, ha accelerato la capacità dei regimi autoritari di monitorare le attività dei cittadini, di reprimere e perseguitare i dissidenti, di censurare ciò che i cittadini sono in grado di vedere e ascoltare e di manipolare l’opinione pubblica.

Gli usi militari dell’AI stanno accelerando nei settori dell’intelligence, della sorveglianza, della ricognizione, della simulazione e dell’addestramento. Particolarmente preoccupanti sono le armi autonome letali, che identificano e distruggono obiettivi senza l’intervento umano. La decisione di affidare all’AI il controllo di importanti sistemi fisici, in particolare le armi nucleari, potrebbe rappresentare una minaccia esistenziale diretta per l’umanità. Ma si tratta comunque di decisioni umane sbagliate.

Fortunatamente, molti paesi stanno riconoscendo l’importanza di regolamentare l’AI e stanno iniziando a prendere provvedimenti per ridurne il potenziale dannoso. Ma si tratta solo di piccoli passi; molto di più deve essere fatto per istituire regole e norme efficaci, nonostante le sfide scoraggianti che comporta la regolamentazione dell’intelligenza artificiale.

Se da un lato la rapida proliferazione di piccoli satelliti promette un maggiore accesso a un Internet non censurato e una maggiore resistenza agli attacchi, dall’altro si assiste a una crescente belligeranza tra Stati Uniti, Russia e Cina nello spazio.

Alcuni attori del settore privato esercitano potere e influenza attraverso il controllo di tecnologie dirompenti come i social media, l’intelligenza artificiale e l’accesso ai fornitori di servizi Internet dallo spazio. Una governance appropriata di queste tecnologie è un aspetto essenziale per gestire il loro sorgere e crescere.

Come riportare indietro l’orologio

Tutti sulla Terra hanno interesse a ridurre la probabilità di catastrofi globali causate da armi nucleari, cambiamenti climatici, progressi nelle scienze della vita, tecnologie dirompenti e corruzione diffusa dell’ecosistema informativo mondiale. Queste minacce, singolarmente e in quanto interagiscono, hanno un carattere e una portata tali che nessuna nazione o leader può tenerle sotto controllo. Questo è il compito dei leader e delle nazioni che lavorano insieme nella convinzione comune che le minacce comuni richiedano un’azione comune.

Come primo passo, e nonostante i loro profondi disaccordi, le tre principali potenze mondiali – Stati Uniti, Cina e Russia – dovrebbero avviare un serio dialogo su ciascuna delle minacce globali qui delineate. Questi tre Paesi devono assumersi ai massimi livelli la responsabilità del pericolo esistenziale che il mondo si trova ad affrontare. Hanno la capacità di riportare il mondo dall’orlo della catastrofe. Dovrebbero farlo, con chiarezza e coraggio, e senza indugio. Mancano solo 90 secondi alla mezzanotte.

Alessandro Pascolini – Padova 23 gennaio 2024


Qua il comunicato dal Bulletin of the Atomic Scientists

IL DIRITTO UNIVERSALE ALLA SALUTE RICHIEDE LA PACE E RIFIUTA LA GUERRA

(Dall’Associazione Italiana di Epidemiologia un appello a cui possono aderire le Associazioni scientifiche/ sanitarie o i singoli operatori della sanità)

Dichiarazione in favore della pace delle società scientifiche sanitarie

Associazione Italiana di Epidemiologia
17-11-2023

In qualità di società scientifiche di area sanitaria, dati i nostri obblighi professionali incentrati sulla tutela e la promozione della salute, sentiamo urgente la necessità di esprimerci pubblicamente e congiuntamente a favore della pace e contro la guerra in tutte le aree del pianeta.

Gli scontri armati hanno continuato in questi anni a martoriare molti paesi: nel 2022 si è registrato il più alto numero di conflitti armati dalla fine della seconda guerra mondiale e ora, nel 2023, questa tendenza si conferma drammaticamente in un’ulteriore spirale di violenza che coinvolge non solo Ucraina e Medio Oriente, ma anche numerosi altri luoghi, in assenza di iniziative efficaci a favore di soluzioni diplomatiche e nonviolente.

Partendo dai principi etici e umanitari di difesa della salute che caratterizzano le nostre professioni, riteniamo che non vi siano mai giustificazioni all’uso della guerra per risolvere le controversie tra i popoli, come esplicitamente affermato dalla Costituzione italiana1 e dalla Carta delle Nazioni Unite,2 che rifiuta la dottrina della ‘guerra giusta’.

Condividiamo e riaffermiamo con forza quanto sostenuto dalla Carta di Ottawa,3documento a cui la comunità di sanità pubblica internazionale si ispira, secondo cui la pace è il primo dei prerequisiti fondamentali per la salute. Solo in seconda battuta vengono elencati l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità. Tutti fattori egualmente compromessi o distrutti dalla guerra, con effetti che perdurano ben oltre la cessazione delle ostilità.

Constatiamo che l’uso bellico delle tecnologie attualmente disponibili fa sì che i conflitti armati si caratterizzino immancabilmente per:

  • mancanza di limiti spaziali, temporali e giuridici;
  • impossibilità di discriminare tra obiettivi militari e civili (comprese le strutture sanitarie);
  • violazione delle leggi umanitarie internazionali;
  • effetti negativi per la salute umana, a breve, medio e lungo termine;
  • forte impatto negativo sulle persone più giovani e le generazioni future;
  • effetti negativi sulla sicurezza alimentare;
  • danni ambientali e dell’ecosistema, con ulteriore accelerazione della crisi climatica.

A ciò si affiancano le crescenti minacce di utilizzo di ordigni nucleari, che generano un rischio talmente grave per la salute delle popolazioni, che le più importanti riviste mediche internazionali hanno sentito il dovere di pubblicare congiuntamente un editoriale4 con cui invitavano le associazioni delle professioni sanitarie di tutto il mondo a informare i propri membri e a sostenere ogni sforzo per ridurre i rischi di una guerra nucleare, compresi quelli determinati da errori e da azioni non intenzionali.

Le nostre richieste e il nostro impegno

In questo contesto riteniamo che la comunità scientifica sanitaria debba far sentire la propria voce a favore dell’interruzione di tutte le guerre in atto e della prevenzione di quelle future, attraverso la ricerca di soluzioni nonviolente efficaci, che intervengano sulle cause alla base dei conflitti, in coerenza con gli obblighi deontologici e con l’Iniziativa Globale per la Pace e la Salute dell’Organizzazione mondiale della sanità.5

Prevenire e contrastare i conflitti implica sostenere il rafforzamento delle infrastrutture di peacekeeping e peacebuilding delle Nazioni Unite e richiedere la riduzione delle spese militari, reindirizzando le risorse verso obiettivi di benessere sociale, di salute e di promozione dell’universalismo dei sistemi sanitari.

Quanto al rischio di conflitti nucleari, chiediamo al governo italiano di garantire la propria partecipazione ai prossimi incontri delle Nazioni Unite sul Trattato sulla proibizione delle armi nucleari,6 con il fine ultimo di firmarlo e ratificarlo.

Contestualmente, chiediamo ai decisori di mettere in atto – e all’opinione pubblica di sostenere – interventi concreti, quali la protezione del personale, delle strutture e dei servizi dei sistemi sanitari dei paesi colpiti dalla guerra, e l’accoglienza delle persone che fuggono da aree di conflitto.

Come uomini e donne che operano per la salute, a noi competono alcuni compiti specifici:

  • contribuire alla descrizione quantitativa degli effetti diretti e indiretti della guerra sulla salute;
  • approfondire le relazioni complesse che legano la guerra ad altri eventi, a loro volta fattori di rischio per la salute, quali migrazioni, carestie, alterazioni degli ecosistemi;
  • elaborare strategie di prevenzione e di mitigazione dei danni alla salute prodotti dall’insieme di fattori che precedono e seguono i conflitti;
  • informare e responsabilizzare la popolazione e i decisori sulle strategie di contrasto più efficaci.

Le associazioni firmatarie di questa dichiarazione si impegnano a proseguire nel lavoro su questi temi e in questi ambiti, in adempienza dei propri doveri etici e deontologici.

Referenze

  1. Costituzione italiana, art. 11. https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali/articolo-11
  2. UN Charter, vd. Preambolo e art. 51 https://www.un.org/en/about-us/un-charter
  3. https://www.who.int/teams/health-promotion/enhanced-wellbeing/first-global-conference4 Reducing the Risks of Nuclear War—The Role of Health Professionals.
  4. JAMA 2023;330(7):601-602. https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2807921
  5. WHO Global Health and Peace Initiative (GHPI) https://www.who.int/initiatives/who-health-and-peace-initiative
  6. Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons (TPNW) https://disarmament.unoda.org/wmd/nuclear/tpnw/

Questo documento è stato costruito in forma partecipata su iniziativa dell’Associazione italiana di epidemiologia e della rivista Epidemiologia & Prevenzione. Hanno partecipato alla discussione e alla stesura del testo anche altre Associazioni scientifiche; è possibile ripercorrere l’intero iter di produzione del documento cliccando qui; altri materiali sono disponibili qui.

Invitiamo tutte le Società/Associazioni scientifiche sanitarie a firmare il documento

Per farlo occorre inviare la propria adesione al seguente indirizzo mail: direzione.aie.ep@inferenze.it

Anche i singoli operatori/operatrici della sanità possono firmare.


(N.d.R.: per l’adesione riportiamo alla pagina originale della rivista EPIDEMIOLOGIA &. PREVENZIONE dove sono elencati i soggetti e le Organizzazioni già firmatarie)


Disarmo per la giustizia climatica e la salute

Disarmament for Climate Justice and Health

Delegazione dell’IPPNW alla COP28

Si sta svolgendo dal 30 novembre al 12 dicembre negli Emirati Arabi Uniti la 28esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28). Per la prima volta, l’IPPNW ha inviato una delegazione internazionale ufficiale alla COP per garantire che la salute umana e ambientale sia al centro del processo decisionale.

Come medici e operatori sanitari avvertiamo che la crisi climatica, la militarizzazione e le armi nucleari rappresentano una grave minaccia per la salute globale.

Allo stesso tempo, si possono ottenere enormi benefici per la salute superando la nostra “dipendenza dai combustibili fossili” e il bisogno distruttivo di giochi di potere militarizzati. In un momento di speranza: per la prima volta i temi della salute e della pace faranno parte del programma della COP il 3 dicembre 2023.


Gli appelli dell’IPPNW a tutti gli Stati alla COP28:

  1. Le emissioni militari di gas serra accelerano il collasso climatico, ponendo una grave minaccia per la salute e il clima. Dovrebbero essere inclusi nei negoziati e sotto la rendicontazione vincolante dell’UNFCC per raggiungere la soglia di 1,5°C.
  2. La corsa agli armamenti globale minaccia la salute e il clima. Il disarmo e la smilitarizzazione possono contribuire a finanziare la mitigazione del clima. La cooperazione e la sicurezza umana dovrebbero essere al centro della politica e del processo decisionale.
  3. L’energia nucleare non è una soluzione al cambiamento climatico, ha gravi conseguenze sulla salute durante il suo ciclo di vita e aumenta il rischio di proliferazione nucleare. Cessare la creazione di nuove centrali nucleari, attuare la rapida eliminazione della produzione di energia nucleare e passare a una transizione giusta verso l’energia rinnovabile.
  4. Le armi nucleari rappresentano una grave minaccia per la salute del pianeta e di tutte le sue forme di vita. Gli accordi sul clima dovrebbero sollecitare tutti i governi ad aderire al Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari il prima possibile.

Nel dettaglio:

1. La militarizzazione e la corsa agli armamenti globale in corso stanno esacerbando la catastrofe climatica

Si stima che l’attività militare contribuisca al 5,5% delle emissioni globali di gas serra rispetto al 4,4% del settore sanitario globale (anche se lo scopo di uno è uccidere e distruggere mentre l’altro è destinato a sostenere la vita). Tuttavia, secondo l’UNFCCC, la loro segnalazione rimane volontaria e i dati ufficiali per paese rimangono scarsi. Gli studi mostrano sempre più l’impatto delle emissioni di carbonio a livello militare, vale a dire che nel 2017 il Pentagono è stato responsabile di più emissioni di carbonio rispetto a paesi come Svezia o Danimarca. Gli effetti climatici e ambientali delle guerre sono ancora meno presi in considerazione. I ricercatori hanno scoperto che i primi 12 mesi di guerra in Ucraina hanno prodotto 119 milioni di tonnellate di CO2, tanto quanto il Belgio ha prodotto nello stesso periodo. Mentre gli eserciti e gli attori della difesa elaborano strategie climatiche, non vi è alcuna prova che un “rinverdimento” delle forze armate sia possibile. Anche se lo fosse, i cicli di produzione e di durata delle attrezzature militari superano di gran lunga la finestra temporale di chiusura per l’azione per il clima. L’aereo da caccia F-35, ad esempio, produce 28 t di CO2 con un pieno di carburante, equivalente all’impronta di CO2 media annua di 4 cittadini tedeschi o 70 cittadini kenioti. Si prevede che l’F-35 diventi la pietra angolare della potenza aerea della NATO e degli alleati degli Stati Uniti e che opererà fino al 2070.

Dobbiamo dimezzare le emissioni entro il 2030 per rimanere entro il limite di 1,5 gradi e garantire così la salute umana e planetaria. Dobbiamo affrontare le emissioni militari.

2. La spesa militare globale è più alta che mai, dirottando risorse dall’azione per il clima

Nel 2022 la spesa militare mondiale è salita a 2.240 miliardi di dollari, 82,9 miliardi di dollari sono stati spesi solo per le armi nucleari. Affrontare la catastrofe climatica richiederà finanziamenti per la mitigazione, l’adattamento e le perdite e i danni, una delle principali questioni negoziate alla COP28. Il Fondo verde per il clima e altri strumenti finanziari per l’azione climatica sono notoriamente sottofinanziati. L’ultimo rapporto dell’IPCC afferma chiaramente che lo spazio fiscale potrebbe dover provenire da altre fonti e che “moderate riduzioni della spesa militare (che potrebbero comportare la risoluzione dei conflitti e accordi transnazionali sulle limitazioni degli armamenti) potrebbero liberare considerevoli risorse per l’agenda degli SDG”. Un rapporto di diverse ONG, tra cui IPPNW Germania, ha rilevato che 1,26 trilioni di dollari di spesa militare della NATO nel 2023 coprirebbero la promessa non mantenuta delle nazioni più inquinanti di finanziamenti per il clima di 100 miliardi di dollari all’anno per 12 anni, o l’adattamento e la mitigazione del clima dei paesi africani per 4 anni. anni. Invece, gli eserciti e l’industria degli armamenti stanno utilizzando il cambiamento climatico come argomento per aumentare i budget e le capacità militari. Le armi vengono esportate verso paesi vulnerabili dal punto di vista climatico e che stanno vivendo conflitti violenti, esacerbando così il doppio impatto della violenza e della crisi climatica.

3. L’energia nucleare è un vicolo cieco nella ricerca di energia pulita

Di fronte alla crisi climatica, alcuni stanno proponendo una soluzione apparentemente semplice senza emissioni di carbonio: l’energia nucleare. Ma in realtà, l’energia nucleare è troppo insignificante nel confronto globale, troppo lenta e troppo costosa per la decarbonizzazione rapidamente necessaria e troppo pericolosa per le persone e la natura per essere più di una distrazione senza alcun effetto reale e tempestivo sull’azione per il clima. Al contrario, l’assoluta incompatibilità delle grandi e rigide centrali elettriche con le fonti di energia rinnovabile rende l’energia nucleare più un freno che una soluzione. I principali motori dell’energia nucleare rimangono ancora gli Stati dotati di armi nucleari. Dei 195 paesi del mondo, 33 attualmente gestiscono centrali nucleari. Oltre la metà (57%) dell’elettricità generata da queste centrali nucleari è prodotta da soli tre paesi: gli Stati Uniti, il più grande produttore mondiale di energia nucleare, seguiti da Cina e Francia. Con la Russia al quarto posto in questa classifica e la Corea del Sud al quinto, questi cinque paesi da soli hanno rappresentato il 71% dell’energia nucleare generata a livello mondiale nel 2021.

L’energia nucleare è costosa e inaffidabile, sta perdendo importanza rispetto alla produzione complessiva di elettricità, è in ritardo rispetto alle energie rinnovabili in termini di rapporto costo-efficacia e produzione ed è quindi obsoleta. E l’energia nucleare rimane pericolosa: le sue conseguenze radiotossiche e i rischi per la salute lungo l’intera catena del combustibile, dalla miniera di uranio alla questione dello stoccaggio finale, rimangono un fardello irrisolto per le generazioni future.

4. Le armi nucleari minacciano un cambiamento climatico catastrofico

Le armi nucleari rappresentano una grave minaccia esistenziale per la salute umana e ambientale. Una cosiddetta guerra nucleare “limitata” avrebbe conseguenze climatiche catastrofiche a livello globale. Un nuovo studio dell’IPPNW mostra che una guerra nucleare tra India e Pakistan, entrambi stati dotati di armi nucleari e spesso in conflitto, che utilizzi meno del 3% degli arsenali nucleari mondiali, potrebbe uccidere fino a una persona su tre sulla terra. Lasciando intatto il 97% delle armi nucleari del mondo, questo scenario plausibile altererebbe il clima mondiale in modo tale da ridurre i tempi di raccolta dei cereali di base da cui dipendono molte popolazioni, portando a una carestia globale nei decenni a seguire.

Anche quando le armi nucleari non vengono utilizzate, il loro mantenimento e produzione sottrae fino a 82,9 miliardi di dollari all’anno che potrebbero essere destinati agli investimenti necessari in energie rinnovabili, finanziamento di perdite e danni e altri sforzi di mitigazione del clima. Inoltre, la sola produzione di armi nucleari provoca immensi danni umani e ambientali.

La soluzione alla crisi climatica deve includere il disarmo nucleare.


Side event at COP28 – by Bimal Khadka
Side event at COP28 – by Bimal Khadka
Side event at COP28 – by Bimal Khadka

IPPNW Statement to the second Meeting of States Parties to the TPNW

Riportiamo qua tradotto l’intervento della dott.ssa Sally Ndung’u (Kenya), membro del board di IPPNW, al 2° Meeting degli Stati Parte al Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW).


L’intervento della dott. Sally Ndung’u

Gentile Presidente, stimati Delegati e Colleghi,

Mi chiamo Sally Ndung’u, medico e specialista in sanità pubblica del Kenya. Grazie per questa opportunità di parlare a nome dei medici internazionali per la prevenzione della guerra nucleare. Essendo io stessa un professionista sanitario, ho l’obbligo morale e professionale di chiedere un futuro più sicuro e più sano senza armi nucleari.

Illustri delegati – A quasi 80 anni dall’inizio dell’era nucleare, siamo sopravvissuti non grazie a leader saggi, o a una solida dottrina militare, o a una tecnologia infallibile, ma grazie alla fortuna. E ora, gli eventi dell’ultimo anno hanno messo a nudo quanto sia profondamente pericoloso scommettere sulla sicurezza del mondo sulla speranza di una buona fortuna indefinita. Come professionisti medici, ci siamo impegnati a dedicare la nostra vita al servizio dell’umanità, ma la minaccia incombente di una guerra nucleare ci toglie la speranza di onorare questo impegno.

Delegati, in caso di guerra nucleare, qualsiasi tentativo da parte della comunità medica di offrire cure e cure alle vittime, compresi noi, sarà probabilmente inutile. Dobbiamo quindi concentrarci sulla prevenzione primaria garantendo che le armi nucleari non vengano mai più utilizzate. Il TPNW fornisce infatti un chiaro percorso legale e morale per sradicare questi strumenti di distruzione di massa indiscriminata.

Una nuova ricerca condotta dopo il Primo Incontro degli Stati Parte ha rivelato che una guerra nucleare sarebbe molto più catastrofica di quanto pensassimo in precedenza. In effetti, anche una cosiddetta guerra nucleare “limitata” o “regionale” sarebbe un evento su scala planetaria; mandando in crisi il clima, le catene di approvvigionamento alimentare globale e, probabilmente, l’ordine pubblico. Le conseguenti carestie e disordini porterebbero alla fame e alla morte di 2 miliardi di persone nei primi due anni. Anche nella mia regione, molto lontana dalle esplosioni nucleari, agli africani innocenti non verrebbero risparmiati questi orrori indiretti. Una guerra su larga scala tra Stati Uniti e Russia causerebbe un completo inverno nucleare e una carestia globale che ucciderebbe più di 5 miliardi di persone nei primi due anni.

Nonostante questi rischi devastanti, quasi inimmaginabili, tutti e nove gli stati dotati di armi nucleari continuano a:

– spendere ingenti somme di denaro per migliorare e ampliare i propri arsenali nucleari; investimenti che potrebbero altrimenti essere utilizzati per affrontare bisogni umanitari urgenti come l’accessibilità a una corretta alimentazione, servizi igienico-sanitari e assistenza sanitaria;

– violare gli obblighi in materia di disarmo previsti dall’articolo VI del TNP;

– e impegnarsi in attività destabilizzanti, tra cui lo svolgimento di due guerre violente, di cui una dove è stato minacciato in modo esplicito e credibile di utilizzare armi nucleari.

Illustri delegati,

Nell’agosto 2023, più di 150 importanti riviste mediche, tra cui The Lancet, British Medical Journal, New England Journal of Medicine e Journal of the American Medical Association hanno pubblicato un editoriale congiunto senza precedenti chiedendo misure urgenti per ridurre il crescente pericolo di guerra nucleare e che tutte le nazioni aderiscano al TPNW. Citando la particolare responsabilità della comunità sanitaria, l’editoriale esorta “le associazioni dei professionisti sanitari a informare i propri membri in tutto il mondo sulla minaccia alla sopravvivenza umana”. A questo proposito, anche le Nazioni Unite e le sue Agenzie Specializzate hanno un ruolo fondamentale da svolgere.

Nel 1980, il Segretario generale delle Nazioni Unite pubblicò uno studio completo sulle armi nucleari. Nel 1983 e nel 1987, l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicò edizioni successive del suo storico rapporto “Effetti della guerra nucleare sulla salute e sui servizi sanitari”. Questi rapporti, pubblicati più di 30 anni fa, sono ormai obsoleti poiché da allora sono emerse molte nuove prove rilevanti.

Sebbene l’Istituto delle Nazioni Unite per la ricerca sul disarmo abbia pubblicato rapporti sulle armi nucleari e sul disarmo, pochissime altre agenzie delle Nazioni Unite si sono impegnate in questioni relative alle armi nucleari in modo sostanziale o continuativo. Eppure la guerra nucleare avrebbe profonde implicazioni per ogni sfera dell’attività umana.

Illustri delegati,

Quest’anno, la prima priorità individuata nella “Nuova agenda per la pace” del Segretario generale delle Nazioni Unite è l’eliminazione delle armi nucleari. Esortiamo pertanto tutti gli Stati parti del TPNW a sviluppare ed estendere il lavoro del gruppo consultivo scientifico adottando le seguenti misure in occasione del 2MSP:

(a) Sollecitare e sostenere l’Organizzazione Mondiale della Sanità a convocare un comitato internazionale di esperti per produrre un rapporto del 21° secolo sugli effetti della guerra nucleare sulla salute e sui servizi sanitari. Uno dei modi più efficaci per sostenere questo lavoro sarebbe che gli Stati fornissero i finanziamenti necessari;

(b) Sollecitare il Segretario Generale NU a produrre un nuovo rapporto globale sulle armi nucleari, con il contributo di tutte le agenzie competenti delle Nazioni Unite;

(c) Richiedere al gruppo consultivo scientifico TPNW di incoraggiare, assistere e, ove opportuno, contribuire a queste iniziative.

Illustri delegati,

Questo secondo incontro degli Stati parte del TPNW avviene in un momento di straordinario pericolo in cui il mondo sta camminando come un sonnambulo verso una catastrofe nucleare di portata inimmaginabile. È ora di svegliarsi, prima che il nostro incubo diventi realtà. Da questo Incontro deve emergere un chiaro appello all’azione che il mondo non può ignorare.

Grazie.

Trattato CFE e sicurezza comune, addio

L’analisi del prof. Pascolini parte dalle origini del Trattato e fino all’ultimo atto di ritiro da parte della Russia.

“Se n’è andato un altro pezzo dell’architettura di accordi che hanno reso piena di speranze la breve stagione della fine della guerra fredda. Il Trattato sulle armi convenzionali in Europa era già malandato da un pezzo e la sua fine prevista da mesi, ma l’atto finale lascia comunque l’amaro in bocca.”

 

Il 7 novembre si sono compiuti i tempi previsti per la procedura di ritiro della Russia dal Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (CFET), in vigore dal 9 novembre 1992; al contempo, la Russia si è ritirata da altri due accordi indissolubilmente legati al CFET: l’Accordo di Budapest (3 novembre 1990) e il Flank Document del 31 maggio 1996. Il primo venne concluso per determinare i livelli di armi convenzionali per ciascuno dei partecipanti all’allora Patto di Varsavia, mentre il secondo è servito a risolvere temporaneamente il problema delle restrizioni sulle zone europee periferiche, sorto in relazione alla cessazione dell’Unione Sovietica.

I 22 membri della NATO parte del trattato (Belgio, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti) e la Svezia hanno immediatamente preso atto della decisione russa e, a loro volta, hanno sospeso completamente l’attuazione del trattato a partire del 7 dicembre.

Il trattato era già estremamente indebolito: Mosca aveva sospeso l’attuazione del CFET il 12 dicembre 2007 e aveva smesso di partecipare alle riunioni settimanali del Gruppo consultivo misto l’11 marzo 2015. I firmatari della NATO avevano sospeso l’attuazione del trattato con la Russia il 22 novembre 2011, ma avevano continuato ad applicarlo con altre sette parti: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Moldavia e Ucraina.

Ora un altro grande trattato di controllo degli armamenti ereditato dal secolo scorso ha seguito la sorte funesta degli altri importanti accordi su questioni chiave del disarmo messi a punto quando sembrava possibile la formazione di una nuova architettura di sicurezza globale ed europea basata sulla cooperazione.

 

Il Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa

Il Trattato CFE fu negoziato e concluso durante gli ultimi anni della Guerra fredda e stabilì limiti globali su categorie chiave di equipaggiamento militare convenzionale in Europa, imponendo la distruzione degli armamenti in eccesso. Il trattato proponeva limiti uguali per i due “gruppi di stati-parte”, la NATO e il Patto di Varsavia.

Il negoziato del CFET venne condotto nella cornice dei fini della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), che portò all’Atto finale di Helsinki del 1975 comprendente disposizioni per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei trentacinque firmatari, per la promozione del commercio e per la tutela dei diritti umani. I paralleli negoziati sulla Riduzione reciproca ed equilibrata delle forze (MBFR) invece si protrassero dal 1973 senza successo, fino al blocco da parte sovietica nel 1979 a seguito della decisione della NATO di introdurre in Europa missili a gittata intermedia.


Nel 1986, Mikhail Gorbaciov propose, nel contesto dei negoziati MBFR, di ridurre le forze terrestri e aeree, includendo le armi convenzionali e nucleari “dall’Atlantico agli Urali”. I negoziati per stabilizzare l’equilibrio militare convenzionale in Europa iniziarono nel gennaio 1989 e portarono alla firma del CFET il 19 novembre 1990.

Il preambolo del CFET ne precisa “gli obiettvi: realizzare un equilibrio sicuro e stabile delle forze armate convenzionali in Europa a livelli più bassi di quelli sinora esistenti, eliminare disparità pregiudizievoli per la stabilità e la sicurezza, e impedire, in via altamente prioritaria, la capacità di lanciare attacchi di sorpresa e di avviare azioni offensive su larga scala in Europa”. A tal fine i quantitativi totali degli armamenti convenzionali in Europa vengono limitati a 40.000 carri armati, 40.000 pezzi di artiglieria, 60.000 veicoli corazzati da combattimento, 13.600 aerei da combattimento e 4.000 elicotteri d’attacco, divisi ugualmente fra le due parti.

Oltre alla riduzione delle forze armate e alla loro distribuzione in precise zone territoriali, il trattato impone alle parti:

  1. scambiarsi annualmente informazioni militari, tra cui l’organizzazione e la geolocalizzazione delle forze armate di ciascun paese, dal livello del ministero della difesa fino ai battaglioni separati, nonché le dotazioni di ciascuna unità di carri armati, mezzi corazzati, pezzi di artiglieria, aerei da combattimento ed elicotteri d’attacco;
  2. notificare gli aggiornamenti relativi a dispiegamenti militari significativi in entrata, in uscita o all’interno della zona di applicazione del trattato;
  3. richiedere e accettare ispezioni;
  4. partecipare alle riunioni del Gruppo consultivo misto creato a Vienna.

L’esito di questi negoziati è stato parallelo a cambiamenti epocali, in quanto la Germania era in fase di riunificazione, il Patto di Varsavia si stava sgretolando e la Lituania stava guidando l’uscita delle repubbliche baltiche dall’Unione Sovietica. Per complicare ulteriormente le cose, lo Stato maggiore sovietico cercava di proteggere i suoi investimenti con misure contabili creative e ritiri anticipati, azioni che Gorbaciov sembrava difficilmente in grado di controllare. Il Trattato CFE non fu completato prima di dover essere rivisto per tener conto del crollo dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991).

Una revisione del trattato si rendeva necessaria per adattarlo alla nuova situazione geopolitica, ma, come dichiarò la Russia il 12 dicembre 2007, motivando il suo ritiro, “il Trattato, firmato durante la Guerra fredda, ha smesso da tempo di rispondere alle realtà europee contemporanee e ai nostri interessi di sicurezza. La sua versione adattata non è potuta entrare in vigore da otto anni a causa della posizione dei paesi della NATO che hanno legato la sua ratifica al soddisfacimento da parte della Russia di requisiti inverosimili che non hanno nulla a che fare con il Trattato CFE. Inoltre, hanno intrapreso una serie di passi incompatibili con la lettera e lo spirito del Trattato, minando gli equilibri che ne sono alla base.”

Il bilancio del Trattato CFE è comunque positivo, avendo agevolato una trasformazione non traumatica della situazione politica europea e portato allo smantellamento di 52.000 pezzi di importanti equipaggiamenti militari, consentendo al contempo oltre 4.000 ispezioni.

Inoltre, come ricorda la Russia nel comunicato del 7 novembre, “anche dopo un brusco cambiamento della situazione geopolitica e geostrategica – la fine del Patto di Varsavia e poi dell’Unione Sovietica – quando la Russia è stata costretta a ridurre e riformare le proprie forze armate, e allo stesso tempo a combattere il terrorismo, il Trattato le ha fornito garanzie materiali di sicurezza. Ad esempio, il Trattato CFE ha permesso di rendere il processo di riduzione delle forze non unilaterale, ma reciproco, coinvolgendo i paesi della NATO, in primis la Germania; il potenziale militare totale degli allora membri dell’alleanza è stato in qualche modo limitato e messo sotto controllo. Tutto ciò ha permesso alla Russia di utilizzare più liberamente le forze armate per risolvere il compito prioritario di garantire la sicurezza interna e l’integrità territoriale e di combattere il separatismo e l’estremismo.”

 

La sicurezza comune

Il trattato CFE trova la sua origine nello “sforzo di sostituire la confrontazione militare con un nuovo modello di relazioni di sicurezza fra tutti gli stati basato sulla cooperazione pacifica e in tal modo di contribuire al superamento della divisione dell’Europa”. Il modello cui fa riferimento era stato messo a punto dalla Commissione indipendente sul disarmo e le questioni di sicurezza, presieduta dall’ex primo ministro svedese Olof Palme, che introdusse nel linguaggio del dibattito internazionale il nuovo concetto di “sicurezza comune”, termine scelto come titolo del suo primo rapporto, presentato il 25 aprile 1982.

L’idea di base della sicurezza comune non è complessa. È che nessun paese può ottenere la sicurezza, nel lungo periodo, semplicemente prendendo decisioni unilaterali sul proprio dispiegamento militare. Questo perché la sicurezza dipende anche dalle azioni e dalle reazioni dei potenziali avversari. La sicurezza deve essere trovata in comune con questi avversari: “gli stati non possono più cercare la sicurezza a spese degli altri; essa può essere ottenuta solo attraverso impegni di cooperazione”. Secondo la Commissione, la sicurezza è condivisa, non un gioco “a somma zero”.

La commissione, composta di 17 personalità politiche di alto livello (al momento non al governo) di diversi contesti nazionali e politici (con una cultura prevalentemente social-liberale) dall’Est e dall’Ovest, dal Nord e dal Sud, fu lanciata a Vienna nel settembre 1980 e fino al 1982 si incontrò 12 volte in varie capitali mondiali, con l’obiettivo di “portare nuove idee e pensieri sul tema del disarmo”.

Negli anni successivi alla pubblicazione del rapporto, l’idea di una sicurezza comune e di una “difesa non offensiva” si è diffusa attraverso diversi canali e in forme differenti in diversi paesi dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, a regioni come l’Asia-Pacifico e all’Unione Sovietica.

A livello nucleare, la sicurezza comune ha prodotto un’alternativa concettuale alla deterrenza nucleare reciproca e alle sue controverse versioni di effettivo impiego bellico “limitato”. A livello convenzionale, la difesa non offensiva offriva una via d’uscita dal dilemma della sicurezza in una serie di situazioni difficili come, appunto, l’Europa centrale, la penisola coreana e la linea di confine russo-cinese-indiana.

La Commissione sottolineava l’importanza delle Nazioni Unite e proponeva un’ampia gamma di misure di disarmo, controllo degli armamenti e rafforzamento della fiducia (CBM), compresa l’adozione di politiche militari meno minacciose. Infine, ha introdotto l’idea emergente secondo cui il problema della sicurezza non dovrebbe limitarsi alle sfide militari alla sicurezza dello stato, ma dovrebbe includere minacce non tradizionali alla popolazione e all’ambiente.

Ora, l’atto formale della cessazione del trattato FCE ci ricorda che si è andato dissolvendo nelle relazioni internazionali lo spirito della sicurezza comune, che non si ritrova più nella politica del tempo presente, in cui, particolarmente le grandi potenze (ma non solo quelle) cercano una propria sicurezza basata su termini di forza, armamenti nucleari ma anche convenzionali avanzati, superando la stessa postura della deterrenza in una rischiosissima corsa alla ricerca di chimeriche posizioni di superiorità militare.

 

Alessandro Pascolini – Università di Padova

16 novembre 2023


Nota: le immagini sono tratte dalla sezione “Guerra Fredda” nel sito www.educolor.itImmagini educative e fotografie