Sempre a soli 90 secondi dalla fine

Un documento dal prof. Pascolini (Università di Padova) all’annuncio odierno del “Doomsday Clock”.

Quest’anno, il Comitato per la Scienza e la Sicurezza del Bulletin of the Atomic Scientists ha mantenuto le lancette dell’Orologio del Giorno del Giudizio (il Doomsday Clock) a soli 90 secondi dalla mezzanotte, il momento più vicino alla catastrofe globale fin dal 1947.

Il Doomsday Clock ci ricorda quanto sia delicato e incerto l’equilibrio che permette la sopravvivenza dell’umanità in presenza delle armi nucleari e di nuove destabilizzanti tecnologie nell’attuale fase dei cambiamenti climatici che condizionano la vita sul nostro pianeta: ogni anno dal 1947 segna quanto tempo rimane prima della mezzanotte antecedente al giorno del giudizio.

La prima indicazione all’inizio della guerra fredda (1947) fu di mezzanotte meno sette minuti; con l’acquisizione delle armi nucleari da parte dell’URSS (1949) le lancette vennero portate a 3 minuti da mezzanotte; un ulteriore aggravamento (e siamo a meno due minuti) si ha con lo sviluppo delle armi termonucleari (1953). Nel corso degli anni, a fronte dell’evoluzione del confronto nucleare fra le superpotenze e la proliferazione in altri paesi, l’orologio si è allontanato e avvicinato alla mezzanotte; il momento più sicuro si è avuto nel 1991 alla fine della guerra fredda (17 minuti da mezzanotte) per poi via via aggravarsi negli anni successivi per l’incapacità del mondo politico internazionale di superare il confronto nucleare e di affrontare le problematiche legate al cambiamento climatico globale, fino a raggiungere lo scorso anno la distanza estremamente pericolosa di soli 90 secondi.

Oggi, ancora una volta, abbiamo fissato l’Orologio del Giorno del Giudizio a 90 secondi dalla mezzanotte, perché l’umanità continua ad affrontare un livello di pericolo senza precedenti. La nostra decisione non deve essere interpretata come un segnale di alleggerimento della situazione della sicurezza internazionale. Al contrario, i leader e i cittadini di tutto il mondo dovrebbero prendere questa dichiarazione come un avvertimento crudo e rispondere con urgenza, come se oggi fosse il momento più pericoloso della storia moderna. Perché potrebbe esserlo.

Di seguito i contenuti principali del documento presentato il 23 gennaio (https://thebulletin.org/doomsday-clock/current-time/).

Le molte dimensioni della minaccia nucleare

Una risoluzione duratura della guerra russa in Ucraina appare distante e l’uso di armi nucleari in tale conflitto da parte della Russia rimane una seria possibilità. La situazione è aggravata dall’installazione di armi nucleari tattiche in Bielorussia e dalla “sospensione” russa dal trattato New Start e dal suo “ritiro” della ratifica del trattato per il bando dei test nucleari (CTBT), mentre gli Stati Uniti neppure discutono la possibilità della loro ratifica.

L’ultimo anno è stato caratterizzato da relazioni difficili tra le maggiori potenze nucleari – Cina, Russia e Stati Uniti – impegnate in vigorosi programmi di modernizzazione nucleare che minacciano di scatenare una triplice corsa agli armamenti nucleari, mentre l’architettura mondiale del controllo degli armamenti continua a crollare.

L’Iran continua ad arricchire l’uranio fino ad avvicinarsi al grado necessario per un’arma, mentre gli sforzi per ripristinare l’accordo sul nucleare iraniano sembrano destinati all’insuccesso, anche per la crescente reciproca ostilità fra gli USA e l’Iran.

Il programma nucleare della Corea del Nord continua ad avanzare costantemente in parallelo allo sviluppo di missili a lunga e lunghissima gittata. In risposta, la Corea del Sud ha chiesto un maggiore impegno nucleare americano per la sua difesa, cosa che potrebbe non bastare a placare l’appetito della Corea del Sud per una propria forza deterrente.

India e Pakistan continuano ad accumulare armi nucleari e sistemi di lancio. Le prospettive per la cooperazione e la riduzione delle minacce nella regione rimangono desolanti.

La guerra a Gaza tra Israele e Hamas ha il potenziale di degenerare in un più ampio conflitto mediorientale che potrebbe rappresentare una minaccia imprevedibile a livello regionale e globale.

Le inquietanti prospettive del cambiamento climatico

Il mondo nel 2023 è entrato in un “territorio inesplorato” per quanto riguarda gli impatti climatici. L’anno scorso è stato il più caldo mai registrato, con condizioni estreme – tra cui incendi massicci, inondazioni su larga scala e ondate di calore prolungate – e il ghiaccio marino antartico ha raggiunto la minima estensione dall’avvento dei dati satellitari, circa 2,67 milioni di chilometri quadrati al di sotto della media 1991-2023.

Inoltre, la maggior parte delle perdite di vite umane (oltre il 90%) e la maggior parte delle perdite economiche (si stima il 60%) in tutto il mondo a causa di disastri legati alle condizioni meteorologiche si è verificata nei paesi in via di sviluppo, evidenziando l’iniqua distribuzione degli impatti climatici.

Le emissioni globali di gas serra hanno continuato ad aumentare, raggiungendo il record di 57,5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente. Il mondo rischia di superare già entro il 2027 l’obiettivo dell’accordo di Parigi sul clima (mantenersi sotto 1,5 °C sopra i livelli pre-industriali) a causa dell’insufficiente impegno a ridurre le emissioni di gas serra. Per arrestare l’ulteriore riscaldamento, il mondo deve raggiungere emissioni nette di anidride carbonica pari a zero.

Oltre a questi fattori preoccupanti, è incoraggiante il fatto che nel mondo si stiano registrando investimenti record e in crescita nelle energie rinnovabili, superando quelli per combustibili fossili, ma nonostante tali segnali di speranza, per arrestare l’ulteriore riscaldamento l’economia mondiale deve raggiungere emissioni nette di anidride carbonica pari a zero, e prima lo si farà, minore sarà la sofferenza umana dovuta agli sconvolgimenti climatici.

Evoluzione crescente delle minacce biologiche

La rivoluzione delle scienze della vita e delle tecnologie associate è in continua espansione, soprattutto grazie all’aumento dell’efficienza delle tecniche di ingegneria genetica. La convergenza degli strumenti emergenti di intelligenza artificiale e delle tecnologie biologiche potrebbe fornire informazioni che consentirebbero a stati, gruppi subnazionali e attori non statali (anche privi di sufficienti competenze) di creare agenti biologici più dannosi e trasmissibili.

Organizzazioni terroristiche continuano a perseguire agenti e armi biologiche e gli eventi attuali aumentano la preoccupazione per il possibile uso di agenti biologici da parte di gruppi terroristici in Medio Oriente e altrove.

Altri due tipi di rischi biologici continuano a destare preoccupazione: il rilascio accidentale di organismi dai laboratori e le malattie infettive che si verificano naturalmente, soprattutto quelle con potenziale pandemico. La deforestazione, l’urbanizzazione e i cambiamenti climatici continuano a destabilizzare le relazioni microbo-ospite e a facilitare l’emergere di malattie infettive. Con l’aumento del numero di laboratori e della quantità di ricerche rischiose e con l’incapacità di standardizzare le pratiche di laboratorio sicure e di istituire un’adeguata supervisione della ricerca, il rischio di rilascio accidentale di agenti patogeni pericolosi si sta aggravando.

I pericoli dell’intelligenza artificiale (AI) e di altre tecnologie dirompenti

Uno degli sviluppi tecnologici più significativi dell’ultimo anno ha riguardato il drammatico progresso dell’intelligenza artificiale generativa. Se alcuni autorevoli esperti esprimono preoccupazione per rischi esistenziali derivanti da ulteriori rapidi progressi nel settore, altri concentrano l’attenzione sulle minacce reali e immediate che l’AI pone.

L’AI è una tecnologia chiaramente dirompente e i recenti sforzi per una governance globale dell’AI dovrebbero essere ampliati.

Il caos, il disordine e le disfunzioni crescenti nel nostro ecosistema informativo minacciano la democrazia e la nostra capacità di affrontare sfide difficili, ed è evidente che l’AI ha un grande potenziale per accelerare enormemente questi processi di corruzione e deformazione delle informazioni. La corruzione dell’ambiente dell’informazione, abilitata dall’AI, potrebbe essere un fattore importante per impedire al mondo di affrontare efficacemente altre minacce urgenti, come la guerra nucleare, le pandemie e il cambiamento climatico.

L’uso dell’intelligenza artificiale e di altre tecnologie informatiche, combinate con vari sensori per l’analisi in tempo reale, ha accelerato la capacità dei regimi autoritari di monitorare le attività dei cittadini, di reprimere e perseguitare i dissidenti, di censurare ciò che i cittadini sono in grado di vedere e ascoltare e di manipolare l’opinione pubblica.

Gli usi militari dell’AI stanno accelerando nei settori dell’intelligence, della sorveglianza, della ricognizione, della simulazione e dell’addestramento. Particolarmente preoccupanti sono le armi autonome letali, che identificano e distruggono obiettivi senza l’intervento umano. La decisione di affidare all’AI il controllo di importanti sistemi fisici, in particolare le armi nucleari, potrebbe rappresentare una minaccia esistenziale diretta per l’umanità. Ma si tratta comunque di decisioni umane sbagliate.

Fortunatamente, molti paesi stanno riconoscendo l’importanza di regolamentare l’AI e stanno iniziando a prendere provvedimenti per ridurne il potenziale dannoso. Ma si tratta solo di piccoli passi; molto di più deve essere fatto per istituire regole e norme efficaci, nonostante le sfide scoraggianti che comporta la regolamentazione dell’intelligenza artificiale.

Se da un lato la rapida proliferazione di piccoli satelliti promette un maggiore accesso a un Internet non censurato e una maggiore resistenza agli attacchi, dall’altro si assiste a una crescente belligeranza tra Stati Uniti, Russia e Cina nello spazio.

Alcuni attori del settore privato esercitano potere e influenza attraverso il controllo di tecnologie dirompenti come i social media, l’intelligenza artificiale e l’accesso ai fornitori di servizi Internet dallo spazio. Una governance appropriata di queste tecnologie è un aspetto essenziale per gestire il loro sorgere e crescere.

Come riportare indietro l’orologio

Tutti sulla Terra hanno interesse a ridurre la probabilità di catastrofi globali causate da armi nucleari, cambiamenti climatici, progressi nelle scienze della vita, tecnologie dirompenti e corruzione diffusa dell’ecosistema informativo mondiale. Queste minacce, singolarmente e in quanto interagiscono, hanno un carattere e una portata tali che nessuna nazione o leader può tenerle sotto controllo. Questo è il compito dei leader e delle nazioni che lavorano insieme nella convinzione comune che le minacce comuni richiedano un’azione comune.

Come primo passo, e nonostante i loro profondi disaccordi, le tre principali potenze mondiali – Stati Uniti, Cina e Russia – dovrebbero avviare un serio dialogo su ciascuna delle minacce globali qui delineate. Questi tre Paesi devono assumersi ai massimi livelli la responsabilità del pericolo esistenziale che il mondo si trova ad affrontare. Hanno la capacità di riportare il mondo dall’orlo della catastrofe. Dovrebbero farlo, con chiarezza e coraggio, e senza indugio. Mancano solo 90 secondi alla mezzanotte.

Alessandro Pascolini – Padova 23 gennaio 2024


Qua il comunicato dal Bulletin of the Atomic Scientists

IL DIRITTO UNIVERSALE ALLA SALUTE RICHIEDE LA PACE E RIFIUTA LA GUERRA

(Dall’Associazione Italiana di Epidemiologia un appello a cui possono aderire le Associazioni scientifiche/ sanitarie o i singoli operatori della sanità)

Dichiarazione in favore della pace delle società scientifiche sanitarie

Associazione Italiana di Epidemiologia
17-11-2023

In qualità di società scientifiche di area sanitaria, dati i nostri obblighi professionali incentrati sulla tutela e la promozione della salute, sentiamo urgente la necessità di esprimerci pubblicamente e congiuntamente a favore della pace e contro la guerra in tutte le aree del pianeta.

Gli scontri armati hanno continuato in questi anni a martoriare molti paesi: nel 2022 si è registrato il più alto numero di conflitti armati dalla fine della seconda guerra mondiale e ora, nel 2023, questa tendenza si conferma drammaticamente in un’ulteriore spirale di violenza che coinvolge non solo Ucraina e Medio Oriente, ma anche numerosi altri luoghi, in assenza di iniziative efficaci a favore di soluzioni diplomatiche e nonviolente.

Partendo dai principi etici e umanitari di difesa della salute che caratterizzano le nostre professioni, riteniamo che non vi siano mai giustificazioni all’uso della guerra per risolvere le controversie tra i popoli, come esplicitamente affermato dalla Costituzione italiana1 e dalla Carta delle Nazioni Unite,2 che rifiuta la dottrina della ‘guerra giusta’.

Condividiamo e riaffermiamo con forza quanto sostenuto dalla Carta di Ottawa,3documento a cui la comunità di sanità pubblica internazionale si ispira, secondo cui la pace è il primo dei prerequisiti fondamentali per la salute. Solo in seconda battuta vengono elencati l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità. Tutti fattori egualmente compromessi o distrutti dalla guerra, con effetti che perdurano ben oltre la cessazione delle ostilità.

Constatiamo che l’uso bellico delle tecnologie attualmente disponibili fa sì che i conflitti armati si caratterizzino immancabilmente per:

  • mancanza di limiti spaziali, temporali e giuridici;
  • impossibilità di discriminare tra obiettivi militari e civili (comprese le strutture sanitarie);
  • violazione delle leggi umanitarie internazionali;
  • effetti negativi per la salute umana, a breve, medio e lungo termine;
  • forte impatto negativo sulle persone più giovani e le generazioni future;
  • effetti negativi sulla sicurezza alimentare;
  • danni ambientali e dell’ecosistema, con ulteriore accelerazione della crisi climatica.

A ciò si affiancano le crescenti minacce di utilizzo di ordigni nucleari, che generano un rischio talmente grave per la salute delle popolazioni, che le più importanti riviste mediche internazionali hanno sentito il dovere di pubblicare congiuntamente un editoriale4 con cui invitavano le associazioni delle professioni sanitarie di tutto il mondo a informare i propri membri e a sostenere ogni sforzo per ridurre i rischi di una guerra nucleare, compresi quelli determinati da errori e da azioni non intenzionali.

Le nostre richieste e il nostro impegno

In questo contesto riteniamo che la comunità scientifica sanitaria debba far sentire la propria voce a favore dell’interruzione di tutte le guerre in atto e della prevenzione di quelle future, attraverso la ricerca di soluzioni nonviolente efficaci, che intervengano sulle cause alla base dei conflitti, in coerenza con gli obblighi deontologici e con l’Iniziativa Globale per la Pace e la Salute dell’Organizzazione mondiale della sanità.5

Prevenire e contrastare i conflitti implica sostenere il rafforzamento delle infrastrutture di peacekeeping e peacebuilding delle Nazioni Unite e richiedere la riduzione delle spese militari, reindirizzando le risorse verso obiettivi di benessere sociale, di salute e di promozione dell’universalismo dei sistemi sanitari.

Quanto al rischio di conflitti nucleari, chiediamo al governo italiano di garantire la propria partecipazione ai prossimi incontri delle Nazioni Unite sul Trattato sulla proibizione delle armi nucleari,6 con il fine ultimo di firmarlo e ratificarlo.

Contestualmente, chiediamo ai decisori di mettere in atto – e all’opinione pubblica di sostenere – interventi concreti, quali la protezione del personale, delle strutture e dei servizi dei sistemi sanitari dei paesi colpiti dalla guerra, e l’accoglienza delle persone che fuggono da aree di conflitto.

Come uomini e donne che operano per la salute, a noi competono alcuni compiti specifici:

  • contribuire alla descrizione quantitativa degli effetti diretti e indiretti della guerra sulla salute;
  • approfondire le relazioni complesse che legano la guerra ad altri eventi, a loro volta fattori di rischio per la salute, quali migrazioni, carestie, alterazioni degli ecosistemi;
  • elaborare strategie di prevenzione e di mitigazione dei danni alla salute prodotti dall’insieme di fattori che precedono e seguono i conflitti;
  • informare e responsabilizzare la popolazione e i decisori sulle strategie di contrasto più efficaci.

Le associazioni firmatarie di questa dichiarazione si impegnano a proseguire nel lavoro su questi temi e in questi ambiti, in adempienza dei propri doveri etici e deontologici.

Referenze

  1. Costituzione italiana, art. 11. https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali/articolo-11
  2. UN Charter, vd. Preambolo e art. 51 https://www.un.org/en/about-us/un-charter
  3. https://www.who.int/teams/health-promotion/enhanced-wellbeing/first-global-conference4 Reducing the Risks of Nuclear War—The Role of Health Professionals.
  4. JAMA 2023;330(7):601-602. https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2807921
  5. WHO Global Health and Peace Initiative (GHPI) https://www.who.int/initiatives/who-health-and-peace-initiative
  6. Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons (TPNW) https://disarmament.unoda.org/wmd/nuclear/tpnw/

Questo documento è stato costruito in forma partecipata su iniziativa dell’Associazione italiana di epidemiologia e della rivista Epidemiologia & Prevenzione. Hanno partecipato alla discussione e alla stesura del testo anche altre Associazioni scientifiche; è possibile ripercorrere l’intero iter di produzione del documento cliccando qui; altri materiali sono disponibili qui.

Invitiamo tutte le Società/Associazioni scientifiche sanitarie a firmare il documento

Per farlo occorre inviare la propria adesione al seguente indirizzo mail: direzione.aie.ep@inferenze.it

Anche i singoli operatori/operatrici della sanità possono firmare.


(N.d.R.: per l’adesione riportiamo alla pagina originale della rivista EPIDEMIOLOGIA &. PREVENZIONE dove sono elencati i soggetti e le Organizzazioni già firmatarie)


Trattato CFE e sicurezza comune, addio

L’analisi del prof. Pascolini parte dalle origini del Trattato e fino all’ultimo atto di ritiro da parte della Russia.

“Se n’è andato un altro pezzo dell’architettura di accordi che hanno reso piena di speranze la breve stagione della fine della guerra fredda. Il Trattato sulle armi convenzionali in Europa era già malandato da un pezzo e la sua fine prevista da mesi, ma l’atto finale lascia comunque l’amaro in bocca.”

 

Il 7 novembre si sono compiuti i tempi previsti per la procedura di ritiro della Russia dal Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (CFET), in vigore dal 9 novembre 1992; al contempo, la Russia si è ritirata da altri due accordi indissolubilmente legati al CFET: l’Accordo di Budapest (3 novembre 1990) e il Flank Document del 31 maggio 1996. Il primo venne concluso per determinare i livelli di armi convenzionali per ciascuno dei partecipanti all’allora Patto di Varsavia, mentre il secondo è servito a risolvere temporaneamente il problema delle restrizioni sulle zone europee periferiche, sorto in relazione alla cessazione dell’Unione Sovietica.

I 22 membri della NATO parte del trattato (Belgio, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti) e la Svezia hanno immediatamente preso atto della decisione russa e, a loro volta, hanno sospeso completamente l’attuazione del trattato a partire del 7 dicembre.

Il trattato era già estremamente indebolito: Mosca aveva sospeso l’attuazione del CFET il 12 dicembre 2007 e aveva smesso di partecipare alle riunioni settimanali del Gruppo consultivo misto l’11 marzo 2015. I firmatari della NATO avevano sospeso l’attuazione del trattato con la Russia il 22 novembre 2011, ma avevano continuato ad applicarlo con altre sette parti: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Moldavia e Ucraina.

Ora un altro grande trattato di controllo degli armamenti ereditato dal secolo scorso ha seguito la sorte funesta degli altri importanti accordi su questioni chiave del disarmo messi a punto quando sembrava possibile la formazione di una nuova architettura di sicurezza globale ed europea basata sulla cooperazione.

 

Il Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa

Il Trattato CFE fu negoziato e concluso durante gli ultimi anni della Guerra fredda e stabilì limiti globali su categorie chiave di equipaggiamento militare convenzionale in Europa, imponendo la distruzione degli armamenti in eccesso. Il trattato proponeva limiti uguali per i due “gruppi di stati-parte”, la NATO e il Patto di Varsavia.

Il negoziato del CFET venne condotto nella cornice dei fini della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), che portò all’Atto finale di Helsinki del 1975 comprendente disposizioni per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dei trentacinque firmatari, per la promozione del commercio e per la tutela dei diritti umani. I paralleli negoziati sulla Riduzione reciproca ed equilibrata delle forze (MBFR) invece si protrassero dal 1973 senza successo, fino al blocco da parte sovietica nel 1979 a seguito della decisione della NATO di introdurre in Europa missili a gittata intermedia.


Nel 1986, Mikhail Gorbaciov propose, nel contesto dei negoziati MBFR, di ridurre le forze terrestri e aeree, includendo le armi convenzionali e nucleari “dall’Atlantico agli Urali”. I negoziati per stabilizzare l’equilibrio militare convenzionale in Europa iniziarono nel gennaio 1989 e portarono alla firma del CFET il 19 novembre 1990.

Il preambolo del CFET ne precisa “gli obiettvi: realizzare un equilibrio sicuro e stabile delle forze armate convenzionali in Europa a livelli più bassi di quelli sinora esistenti, eliminare disparità pregiudizievoli per la stabilità e la sicurezza, e impedire, in via altamente prioritaria, la capacità di lanciare attacchi di sorpresa e di avviare azioni offensive su larga scala in Europa”. A tal fine i quantitativi totali degli armamenti convenzionali in Europa vengono limitati a 40.000 carri armati, 40.000 pezzi di artiglieria, 60.000 veicoli corazzati da combattimento, 13.600 aerei da combattimento e 4.000 elicotteri d’attacco, divisi ugualmente fra le due parti.

Oltre alla riduzione delle forze armate e alla loro distribuzione in precise zone territoriali, il trattato impone alle parti:

  1. scambiarsi annualmente informazioni militari, tra cui l’organizzazione e la geolocalizzazione delle forze armate di ciascun paese, dal livello del ministero della difesa fino ai battaglioni separati, nonché le dotazioni di ciascuna unità di carri armati, mezzi corazzati, pezzi di artiglieria, aerei da combattimento ed elicotteri d’attacco;
  2. notificare gli aggiornamenti relativi a dispiegamenti militari significativi in entrata, in uscita o all’interno della zona di applicazione del trattato;
  3. richiedere e accettare ispezioni;
  4. partecipare alle riunioni del Gruppo consultivo misto creato a Vienna.

L’esito di questi negoziati è stato parallelo a cambiamenti epocali, in quanto la Germania era in fase di riunificazione, il Patto di Varsavia si stava sgretolando e la Lituania stava guidando l’uscita delle repubbliche baltiche dall’Unione Sovietica. Per complicare ulteriormente le cose, lo Stato maggiore sovietico cercava di proteggere i suoi investimenti con misure contabili creative e ritiri anticipati, azioni che Gorbaciov sembrava difficilmente in grado di controllare. Il Trattato CFE non fu completato prima di dover essere rivisto per tener conto del crollo dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991).

Una revisione del trattato si rendeva necessaria per adattarlo alla nuova situazione geopolitica, ma, come dichiarò la Russia il 12 dicembre 2007, motivando il suo ritiro, “il Trattato, firmato durante la Guerra fredda, ha smesso da tempo di rispondere alle realtà europee contemporanee e ai nostri interessi di sicurezza. La sua versione adattata non è potuta entrare in vigore da otto anni a causa della posizione dei paesi della NATO che hanno legato la sua ratifica al soddisfacimento da parte della Russia di requisiti inverosimili che non hanno nulla a che fare con il Trattato CFE. Inoltre, hanno intrapreso una serie di passi incompatibili con la lettera e lo spirito del Trattato, minando gli equilibri che ne sono alla base.”

Il bilancio del Trattato CFE è comunque positivo, avendo agevolato una trasformazione non traumatica della situazione politica europea e portato allo smantellamento di 52.000 pezzi di importanti equipaggiamenti militari, consentendo al contempo oltre 4.000 ispezioni.

Inoltre, come ricorda la Russia nel comunicato del 7 novembre, “anche dopo un brusco cambiamento della situazione geopolitica e geostrategica – la fine del Patto di Varsavia e poi dell’Unione Sovietica – quando la Russia è stata costretta a ridurre e riformare le proprie forze armate, e allo stesso tempo a combattere il terrorismo, il Trattato le ha fornito garanzie materiali di sicurezza. Ad esempio, il Trattato CFE ha permesso di rendere il processo di riduzione delle forze non unilaterale, ma reciproco, coinvolgendo i paesi della NATO, in primis la Germania; il potenziale militare totale degli allora membri dell’alleanza è stato in qualche modo limitato e messo sotto controllo. Tutto ciò ha permesso alla Russia di utilizzare più liberamente le forze armate per risolvere il compito prioritario di garantire la sicurezza interna e l’integrità territoriale e di combattere il separatismo e l’estremismo.”

 

La sicurezza comune

Il trattato CFE trova la sua origine nello “sforzo di sostituire la confrontazione militare con un nuovo modello di relazioni di sicurezza fra tutti gli stati basato sulla cooperazione pacifica e in tal modo di contribuire al superamento della divisione dell’Europa”. Il modello cui fa riferimento era stato messo a punto dalla Commissione indipendente sul disarmo e le questioni di sicurezza, presieduta dall’ex primo ministro svedese Olof Palme, che introdusse nel linguaggio del dibattito internazionale il nuovo concetto di “sicurezza comune”, termine scelto come titolo del suo primo rapporto, presentato il 25 aprile 1982.

L’idea di base della sicurezza comune non è complessa. È che nessun paese può ottenere la sicurezza, nel lungo periodo, semplicemente prendendo decisioni unilaterali sul proprio dispiegamento militare. Questo perché la sicurezza dipende anche dalle azioni e dalle reazioni dei potenziali avversari. La sicurezza deve essere trovata in comune con questi avversari: “gli stati non possono più cercare la sicurezza a spese degli altri; essa può essere ottenuta solo attraverso impegni di cooperazione”. Secondo la Commissione, la sicurezza è condivisa, non un gioco “a somma zero”.

La commissione, composta di 17 personalità politiche di alto livello (al momento non al governo) di diversi contesti nazionali e politici (con una cultura prevalentemente social-liberale) dall’Est e dall’Ovest, dal Nord e dal Sud, fu lanciata a Vienna nel settembre 1980 e fino al 1982 si incontrò 12 volte in varie capitali mondiali, con l’obiettivo di “portare nuove idee e pensieri sul tema del disarmo”.

Negli anni successivi alla pubblicazione del rapporto, l’idea di una sicurezza comune e di una “difesa non offensiva” si è diffusa attraverso diversi canali e in forme differenti in diversi paesi dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, a regioni come l’Asia-Pacifico e all’Unione Sovietica.

A livello nucleare, la sicurezza comune ha prodotto un’alternativa concettuale alla deterrenza nucleare reciproca e alle sue controverse versioni di effettivo impiego bellico “limitato”. A livello convenzionale, la difesa non offensiva offriva una via d’uscita dal dilemma della sicurezza in una serie di situazioni difficili come, appunto, l’Europa centrale, la penisola coreana e la linea di confine russo-cinese-indiana.

La Commissione sottolineava l’importanza delle Nazioni Unite e proponeva un’ampia gamma di misure di disarmo, controllo degli armamenti e rafforzamento della fiducia (CBM), compresa l’adozione di politiche militari meno minacciose. Infine, ha introdotto l’idea emergente secondo cui il problema della sicurezza non dovrebbe limitarsi alle sfide militari alla sicurezza dello stato, ma dovrebbe includere minacce non tradizionali alla popolazione e all’ambiente.

Ora, l’atto formale della cessazione del trattato FCE ci ricorda che si è andato dissolvendo nelle relazioni internazionali lo spirito della sicurezza comune, che non si ritrova più nella politica del tempo presente, in cui, particolarmente le grandi potenze (ma non solo quelle) cercano una propria sicurezza basata su termini di forza, armamenti nucleari ma anche convenzionali avanzati, superando la stessa postura della deterrenza in una rischiosissima corsa alla ricerca di chimeriche posizioni di superiorità militare.

 

Alessandro Pascolini – Università di Padova

16 novembre 2023


Nota: le immagini sono tratte dalla sezione “Guerra Fredda” nel sito www.educolor.itImmagini educative e fotografie

7 luglio 2023. A sei anni dal TPNW

Comunicato stampa da IRIAD Istituto Ricerche Internazionali Archivio Disarmo

Quando il 7 luglio 2017 veniva approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il trattato per la proibizione delle armi nucleari – TPNW, il trattato che bandisce immediatamente per i firmatari l’arma atomica, i paesi del club nucleare (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia – autorizzati dal Trattato di Non Proliferazione TNP – e Israele, India, Pakistan e Corea del Nord – esterni al TNP) non parteciparono neppure alle votazioni, come anche i loro alleati, tra cui l’Italia.

L’invasione russa dell’Ucraina e le minacce di Putin di un possibile uso dell’arma nucleare hanno evidenziato la fondatezza delle preoccupazioni dei 122 paesi che allora vollero un nuovo trattato che non rinviasse a tempo indeterminato il disarmo nucleare.

Le 12.512 testate nucleari, per il 90% in possesso degli Stati Uniti e della Russia, stanno venendo modernizzate e se ne riscontra già un aumento anche quantitativo (+ 86 rispetto al gennaio 2022).

L’ex presidente russo Medvedev ha recentemente parlato di una probabile apocalisse nucleare, riprendendo le parole più volte pronunciate da Putin sin dall’inizio del conflitto. Il Concetto Strategico della NATO, approvato lo scorso giugno 2022, continua a far affidamento sulle armi nucleari.

La minaccia nucleare, tenuta relativamente sotto controllo nell’epoca della Guerra Fredda grazie ad una serie di tavoli di confronto e di accordi specifici, è da anni senza più spazi di negoziazione e di comunicazione. Il conflitto ucraino ha solo evidenziato una situazione di deterioramento delle intese internazionali in questo settore, con accordi non più rinnovati, denunciati o sospesi: basta pensare al Trattato sulle forze nucleari di gittata intermedia (1987), al Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (1990), al Trattato sui cieli aperti (1992), arrivando ad oggi con il New Start sulle armi nucleari strategiche recentemente sospeso da Mosca.

La denuncia statunitense del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPoA) nel 2018 ha fatto sì che l’’Iran abbia ripreso ad incrementare la sua capacità di arricchimento dell’uranio, per realizzare il materiale fissile per l’eventuale arma nucleare.

Tutti questi spazi di confronto e di reciproco controllo sono andati scomparendo, lasciando al proprio posto solo la possibilità di mostrare i muscoli, di esercitare politiche di potenza ancor più rischiose in campo nucleare, rinunciando ad ipotesi di sicurezza condivisa.

L’Archivio Disarmo, che da oltre 40 anni segue la questione nucleare, ritiene che sia importante riprendere il filo di colloqui interrotti da troppo tempo, perché il risultato, come si vede, non promette nulla di buono. L’Italia, che ospita sul suo territorio nazionale 35 bombe nucleari statunitensi del tipo B61 a Ghedi (BS) e a Aviano (PN), non ha firmato il TPNW, ma potrebbe comunque partecipare agli incontri di quei paesi che lo hanno firmato e ratificato, segnalando la propria disponibilità a cercare una comune soluzione rispetto alla minaccia nucleare che il TNP finora non ha evitato.

Maurizio Simoncelli

Vicepresidente


Un momento critico per l’impianto nucleare di Zaporizhzhya

Riportiamo il testo di un attualissimo articolo del prof. Alessandro Pascolini riguardante i rischi e le criticità che investono la centrale nucleare di Zaporizhzhya, anche alla luce del recente danneggiamento della diga della centrale idroelettrica di Kakhovka.


Centrale nucleare a Zaporizhzhya (Di Ralf1969 – Opera propria, CC BY-SA 3.0)

L’impianto nucleare ucraino di Zaporizhzhya (ZNPP) torna al centro dell’attenzione a seguito del danneggiamento della diga della centrale idroelettrica di Kakhovka (KHPP) sul fiume Dnipro (Dnepr, anche Nipro o Boristene in italiano) nell’area di Nova Kakhovka, circa 55 km a nord-est della città di Kherson e un centinaio di km a valle appunto della ZNPP, che utilizza proprio il bacino generato dalla diga per la refrigerazione dei reattori e come pozzo di calore.

In realtà la ZNPP era già da causa di preoccupata attenzione da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), il cui direttore Rafael Mariano Grossi ha ritenuto necessario presentare al Consiglio di sicurezza dell’ONU lo scorso 30 maggio un rapporto sullo stato della centrale e i suoi gravi rischi di sicurezza.

Ricordiamo (https://ilbolive.unipd.it/it/news/impianti-nucleari-civili-guerra-norme) che la centrale è il maggiore complesso elettronucleare d’Europa con 6 reattori di tipo VVER- 1000/320 di costruzione russa per una potenza totale di 5700 MW. Il 4 marzo 2022 forze russe hanno occupato il sito della ZNPP e dal successivo 12 marzo l’azienda statale russa per l’energia atomica Rosatom ne ha preso pieno controllo operativo, mantenendo il personale ucraino in condizione subordinata per la gestione ordinaria.

Il nuovo disastro

Il fiume Dnipro costituisce localmente il confine fra il territorio occupato dalla Russia in seguito alla sua invasione del febbraio 2022 e la zona liberata dalle forze ucraine; la centrale KHPP con la diga, lunga un paio di km, è sotto controllo russo dalla primavera dello scorso anno. Fonti russe e ucraine hanno iniziato a riferire di forti rumori, simili a esplosioni, provenienti dalla centrale KHPP verso le due (ora locale) del 6 giugno, seguiti da segnalazioni di impetuosi scrosci d’acqua dall’invaso.

Una falla di circa 200 m della diga sta causando una massiccia inondazione del delta del fiume e delle sue zone umide fino agli insediamenti sulla costa nell’oblast di Kherson, sia nella zona ucraina sulla riva destra del fiume, che sulla riva sinistra occupata dalle forze russe.

Ci sono contrastanti analisi dell’impatto sulle operazioni e i piani militari della situazione creatasi con la profonda alterazione del teatro geografico; quello che è certo è che decine di migliaia di persone sono costrette a evacuare un centinaio di centri abitati, in un ulteriore disastro umanitario e ambientale.

Ucraina e Russia si scambiano la responsabilità del disastro, che appare irrecuperabile. Funzionari ucraini hanno dichiarato che la Russia ha intenzionalmente distrutto la diga per impedire controffensive nella zona e hanno suggerito che le forze armate russe non si erano preparate per la conseguente inondazione. Secondo l’intelligence militare ucraina, le forze russe avevano minato la diga poco dopo la sua cattura, e piazzato ulteriori mine sulle chiuse e sui supporti della diga nell’aprile 2022.

I funzionari russi hanno accusato le forze ucraine di aver distrutto la centrale con un’azione di sabotaggio per bloccare il rifornimento di acqua dolce alla Crimea e di diffondere false accuse alla Russia per coprire il fallimento dei loro ultimi attacchi.

Ricordo che in base ai Protocolli addizionali I e II alle Convenzioni di Ginevra del 18 agosto 1949, approvati l’8 giugno 1977, attacchi alle dighe costituiscono una violazione del diritto umanitario; l’articolo 56 del Protocollo I afferma: Le opere o installazioni che racchiudono forze pericolose, cioè le dighe di protezione o di ritenuta e le centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, non saranno oggetto di attacchi, anche se costituiscono obiettivi militari, se tali attacchi possono provocare la liberazione di dette forze e causare, di conseguenza, gravi perdite alla popolazione civile. Sia l’Ucraina che la Russia sono parte dei Protocolli e la Russia li ha anche incorporati nel suo manuale militare del 1990 e nelle “regole per l’applicazione della legislazione internazionale umanitaria” del 2001.

La diga di Krakhovka

La diga era già stata danneggiata in due precedenti incidenti: un possibile attacco ucraino a fine ottobre/inizio novembre e una probabile carica esplosiva russa che ha fatto saltare in aria parte della carreggiata sopra la diga l’11 novembre. Poi le cose sono peggiorate e la strada, che passa sopra la diga, è stata spazzata via tra il 2 e il 3 giugno, segnalando problemi strutturali dell’impianto.

Esperti avevano segnalato in precedenza che la diga era in stato di abbandono, e che le forze russe che occupano la struttura non provvedevano alla necessaria manutenzione. Non va esclusa quindi la possibilità di un cedimento strutturale non intenzionale, causato dall’incuria, tenendo anche conto che il livello dell’acqua del bacino di Kakhovka, dopo aver toccato a gennaio-febbraio un minimo eccezionale (14 m, nel sistema di riferimento al Baltico), a maggio ha raggiunto il massimo degli ultimi 30 anni (oltre 17,5 m), portandolo a una capacità di stoccaggio superiore a quella progettata.

Impatto sulla centrale nucleare

L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha dichiarato che l’evento non dovrebbe comportare rischi immediati per la sicurezza della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Alle 6 di mattina del giorno 7 il livello dell’acqua dell’invaso era calato di 2,8 metri rispetto a prima dell’incidente, raggiungendo la quota di 14,06 m.

“Se il livello scende sotto i 12,7 metri, la ZNPP non sarà più in grado di prelevare acqua dal bacino. Poiché l’entità dei danni alla diga è ancora sconosciuta, non è possibile prevedere se e quando ciò potrebbe accadere. Tuttavia, se l’attuale tasso di calo (5 cm per ora) dovesse continuare, il livello di 12,7 metri potrebbe essere raggiunto entro i prossimi due giorni. Per prepararsi a questa eventualità, la ZNPP sta continuamente rifornendo le proprie riserve idriche – tra cui il grande bacino di raffreddamento vicino all’impianto (sopraelevato rispetto al fiume) e i piccoli bacini di raffreddamento a pioggia con i canali adiacenti – utilizzando appieno l’acqua dell’invaso di Kakhovka finché ancora possibile.” L’impianto è inoltre dotato di speciali prese d’acqua fluttuanti che consentono alla struttura di prelevare acqua quando il serbatoio è a livelli bassi.

Quando saranno piene, queste riserve d’acqua saranno sufficienti a fornire all’impianto l’acqua necessaria per raffreddare i sei reattori e il combustibile esausto per diversi mesi. In ogni caso il personale della IAEA presso la centrale sta monitorando attentamente l’evolversi della situazione.

I sei reattori della ZNPP dal settembre 2022 non sono operativi, cinque sono in modalità di arresto freddo e un’unità rimane in arresto caldo (a temperatura e pressione elevate) per produrre vapore per operazioni necessarie sul sito, come il trattamento dei rifiuti radioattivi liquidi che vengono raccolti dai sei reattori.

Ricordiamo che anche durante lo stato di arresto i reattori hanno ancora bisogno di raffreddamento continuo per disperdere il calore prodotto dal materiale radioattivo, al fine di evitare la fusione del combustibile e un possibile rilascio di sostanze radioattive. Vanno inoltre continuamente raffreddate le piscine che contengono il materiale esausto e i generatori elettrici diesel di emergenza, qualora in funzione. Sul sito ci sono più di 3300 barre di combustibile esausto immagazzinate a freddo e quasi 2000 nelle piscine “a caldo”, per un totale di 2200 t di materiale radioattivo.

Gli “altri” problemi della centrale

Nel suo intervento al Consiglio di sicurezza il direttore Grossi ha presentato le condizioni necessarie per garantire la sicurezza e la protezione della centrale ZNPP a prevenire un disastro nucleare calamitoso per l’Ucraina, la Russia e altri paesi. Il rischio nucleare e radiologico deriva da tre principali problemi: l’insicura disponibilità di energia elettrica, la drastica diminuzione di personale e il coinvolgimento del sito in operazioni militari.

La centrale da mesi non produce energia, ma ne richiede per il corretto funzionamento e soprattutto per far funzionare le pompe di raffreddamento che impediscono la fusione del nocciolo nucleare dei reattori e disperdono il calore del combustibile esausto.

Delle quattro linee elettriche ad alta tensione (750 kV) che collegano la centrale nucleare alla rete due furono danneggiate nei primi giorni del controllo russo e da molti mesi l’impianto ha perso anche una terza linea; da marzo non è disponibile neppure la linea a 330 kV che collega la ZNPP alla vicina centrale elettrotermica ZTPP, sotto pieno controllo russo; pertanto la centrale può contare su una sola linea elettrica, con una critica riduzione della sicurezza in profondità della struttura.

L’impianto è dotato di 20 generatori diesel d’emergenza, in grado di fornire per qualche tempo la potenza necessaria nei casi di interruzione dell’alimentazione esterna, e di fatto hanno dovuto venir impiegati in sette occasioni dall’invasione russa a seguito di bombardamenti delle linee.

Il personale ucraino ha continuato a operare la centrale regolarmente anche sotto il controllo militare russo e la direzione della Rosatom, ma la situazione ha avuto un impatto negativo sul morale e la serenità del personale e il suo senso di sicurezza. Comunque il numero degli addetti è drasticamente diminuito e degli 11 mila inizialmente presenti sono rimasti circa 3500, sufficienti alla gestione attuale con i reattori in stato di arresto; tuttavia è venuto a mancare il personale più qualificato e vi è un deficit di competenze per gli interventi di mantenimento e riparazioni e di esperti per i controlli di sicurezza.

L’impianto nucleare di Zaporizhzhya si trova a Enerhodar, all’estremo limite della zona occupata dalla Russia e solo il Dnipro separa localmente le forze combattenti col suo letto di circa 5 km; la ZNPP potrebbe venirsi a trovare in prima linea nelle prossime operazioni militari, con i conseguenti gravissimi rischi.

Ci sono stati attacchi di artiglieria nei suoi pressi e una viva attività di guerriglia ucraina nella zona circostante. Nel corso del mese di maggio le autorità che controllano de-facto la regione sotto controllo russo hanno annunciato l’evacuazione di centinaia di civili da Enerhodar, indicando un’escalation dell’attività militare nella zona.

L’oblast di Zaporizhzhya è uno dei principali terreni di scontro dei due eserciti: le forze russe sono riuscite a occupare solo circa i 2/3 meridionali della regione, che è stata tuttavia formalmente incorporata nella Federazione russa il 30 settembre 2022, e quindi si trovano nella necessità di completarne l’acquisizione; di contro, uno degli obiettivi dell’annunciata contro-offensiva ucraina riguarda la liberazione dell’intero oblast fino al mar d’Azov, in modo da interrompere il collegamento via terra della Russia con la Crimea.

Data la gravità della situazione, il direttore della IAEA a seguito di intense consultazioni con i vertici dell’Ucraina e della Russia, ha “individuato cinque principi concreti per contribuire a garantire la sicurezza nucleare della centrale di ZNPP, al fine di prevenire un incidente nucleare e assicurare l’integrità dell’impianto:

  1. Non ci dovrebbero essere attacchi di alcun tipo da o contro l’impianto, in particolare contro i reattori, lo stoccaggio del combustibile esaurito, altre infrastrutture critiche o il personale;
  2. La centrale nucleare di ZNPP non dovrebbe essere utilizzata come deposito o base per armi pesanti (ad esempio lanciarazzi multipli, sistemi e munizioni di artiglieria e carri armati) o per personale militare impiegabile per un attacco dall’impianto;
  3. L’alimentazione dell’impianto con fornitura di potenza esterna non dovrebbe essere messa a rischio. A tal fine, occorre fare il possibile per garantire che l’energia elettrica rimanga sempre disponibile e sicura;
  4. Tutte le strutture, i sistemi e i componenti essenziali per il funzionamento sicuro della centrale nucleare di ZNPP devono essere protetti da attacchi o atti di sabotaggio;
  5. Nessuna azione deve essere intrapresa per compromettere la sicurezza dell’impianto.”

Queste condizioni appaiono più che ragionevoli e nell’interesse comune; una loro concordata implementazione da parte russa e ucraina può accendere un barlume di speranza per l’inizio di contatti dei responsabili dei due paesi su problemi vitali comuni, come appunto la sicurezza nucleare.

Alessandro Pascolini – Padova 8 giugno 2023