7 luglio 2023. A sei anni dal TPNW

Comunicato stampa da IRIAD Istituto Ricerche Internazionali Archivio Disarmo

Quando il 7 luglio 2017 veniva approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il trattato per la proibizione delle armi nucleari – TPNW, il trattato che bandisce immediatamente per i firmatari l’arma atomica, i paesi del club nucleare (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia – autorizzati dal Trattato di Non Proliferazione TNP – e Israele, India, Pakistan e Corea del Nord – esterni al TNP) non parteciparono neppure alle votazioni, come anche i loro alleati, tra cui l’Italia.

L’invasione russa dell’Ucraina e le minacce di Putin di un possibile uso dell’arma nucleare hanno evidenziato la fondatezza delle preoccupazioni dei 122 paesi che allora vollero un nuovo trattato che non rinviasse a tempo indeterminato il disarmo nucleare.

Le 12.512 testate nucleari, per il 90% in possesso degli Stati Uniti e della Russia, stanno venendo modernizzate e se ne riscontra già un aumento anche quantitativo (+ 86 rispetto al gennaio 2022).

L’ex presidente russo Medvedev ha recentemente parlato di una probabile apocalisse nucleare, riprendendo le parole più volte pronunciate da Putin sin dall’inizio del conflitto. Il Concetto Strategico della NATO, approvato lo scorso giugno 2022, continua a far affidamento sulle armi nucleari.

La minaccia nucleare, tenuta relativamente sotto controllo nell’epoca della Guerra Fredda grazie ad una serie di tavoli di confronto e di accordi specifici, è da anni senza più spazi di negoziazione e di comunicazione. Il conflitto ucraino ha solo evidenziato una situazione di deterioramento delle intese internazionali in questo settore, con accordi non più rinnovati, denunciati o sospesi: basta pensare al Trattato sulle forze nucleari di gittata intermedia (1987), al Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (1990), al Trattato sui cieli aperti (1992), arrivando ad oggi con il New Start sulle armi nucleari strategiche recentemente sospeso da Mosca.

La denuncia statunitense del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPoA) nel 2018 ha fatto sì che l’’Iran abbia ripreso ad incrementare la sua capacità di arricchimento dell’uranio, per realizzare il materiale fissile per l’eventuale arma nucleare.

Tutti questi spazi di confronto e di reciproco controllo sono andati scomparendo, lasciando al proprio posto solo la possibilità di mostrare i muscoli, di esercitare politiche di potenza ancor più rischiose in campo nucleare, rinunciando ad ipotesi di sicurezza condivisa.

L’Archivio Disarmo, che da oltre 40 anni segue la questione nucleare, ritiene che sia importante riprendere il filo di colloqui interrotti da troppo tempo, perché il risultato, come si vede, non promette nulla di buono. L’Italia, che ospita sul suo territorio nazionale 35 bombe nucleari statunitensi del tipo B61 a Ghedi (BS) e a Aviano (PN), non ha firmato il TPNW, ma potrebbe comunque partecipare agli incontri di quei paesi che lo hanno firmato e ratificato, segnalando la propria disponibilità a cercare una comune soluzione rispetto alla minaccia nucleare che il TNP finora non ha evitato.

Maurizio Simoncelli

Vicepresidente


Un momento critico per l’impianto nucleare di Zaporizhzhya

Riportiamo il testo di un attualissimo articolo del prof. Alessandro Pascolini riguardante i rischi e le criticità che investono la centrale nucleare di Zaporizhzhya, anche alla luce del recente danneggiamento della diga della centrale idroelettrica di Kakhovka.


Centrale nucleare a Zaporizhzhya (Di Ralf1969 – Opera propria, CC BY-SA 3.0)

L’impianto nucleare ucraino di Zaporizhzhya (ZNPP) torna al centro dell’attenzione a seguito del danneggiamento della diga della centrale idroelettrica di Kakhovka (KHPP) sul fiume Dnipro (Dnepr, anche Nipro o Boristene in italiano) nell’area di Nova Kakhovka, circa 55 km a nord-est della città di Kherson e un centinaio di km a valle appunto della ZNPP, che utilizza proprio il bacino generato dalla diga per la refrigerazione dei reattori e come pozzo di calore.

In realtà la ZNPP era già da causa di preoccupata attenzione da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), il cui direttore Rafael Mariano Grossi ha ritenuto necessario presentare al Consiglio di sicurezza dell’ONU lo scorso 30 maggio un rapporto sullo stato della centrale e i suoi gravi rischi di sicurezza.

Ricordiamo (https://ilbolive.unipd.it/it/news/impianti-nucleari-civili-guerra-norme) che la centrale è il maggiore complesso elettronucleare d’Europa con 6 reattori di tipo VVER- 1000/320 di costruzione russa per una potenza totale di 5700 MW. Il 4 marzo 2022 forze russe hanno occupato il sito della ZNPP e dal successivo 12 marzo l’azienda statale russa per l’energia atomica Rosatom ne ha preso pieno controllo operativo, mantenendo il personale ucraino in condizione subordinata per la gestione ordinaria.

Il nuovo disastro

Il fiume Dnipro costituisce localmente il confine fra il territorio occupato dalla Russia in seguito alla sua invasione del febbraio 2022 e la zona liberata dalle forze ucraine; la centrale KHPP con la diga, lunga un paio di km, è sotto controllo russo dalla primavera dello scorso anno. Fonti russe e ucraine hanno iniziato a riferire di forti rumori, simili a esplosioni, provenienti dalla centrale KHPP verso le due (ora locale) del 6 giugno, seguiti da segnalazioni di impetuosi scrosci d’acqua dall’invaso.

Una falla di circa 200 m della diga sta causando una massiccia inondazione del delta del fiume e delle sue zone umide fino agli insediamenti sulla costa nell’oblast di Kherson, sia nella zona ucraina sulla riva destra del fiume, che sulla riva sinistra occupata dalle forze russe.

Ci sono contrastanti analisi dell’impatto sulle operazioni e i piani militari della situazione creatasi con la profonda alterazione del teatro geografico; quello che è certo è che decine di migliaia di persone sono costrette a evacuare un centinaio di centri abitati, in un ulteriore disastro umanitario e ambientale.

Ucraina e Russia si scambiano la responsabilità del disastro, che appare irrecuperabile. Funzionari ucraini hanno dichiarato che la Russia ha intenzionalmente distrutto la diga per impedire controffensive nella zona e hanno suggerito che le forze armate russe non si erano preparate per la conseguente inondazione. Secondo l’intelligence militare ucraina, le forze russe avevano minato la diga poco dopo la sua cattura, e piazzato ulteriori mine sulle chiuse e sui supporti della diga nell’aprile 2022.

I funzionari russi hanno accusato le forze ucraine di aver distrutto la centrale con un’azione di sabotaggio per bloccare il rifornimento di acqua dolce alla Crimea e di diffondere false accuse alla Russia per coprire il fallimento dei loro ultimi attacchi.

Ricordo che in base ai Protocolli addizionali I e II alle Convenzioni di Ginevra del 18 agosto 1949, approvati l’8 giugno 1977, attacchi alle dighe costituiscono una violazione del diritto umanitario; l’articolo 56 del Protocollo I afferma: Le opere o installazioni che racchiudono forze pericolose, cioè le dighe di protezione o di ritenuta e le centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, non saranno oggetto di attacchi, anche se costituiscono obiettivi militari, se tali attacchi possono provocare la liberazione di dette forze e causare, di conseguenza, gravi perdite alla popolazione civile. Sia l’Ucraina che la Russia sono parte dei Protocolli e la Russia li ha anche incorporati nel suo manuale militare del 1990 e nelle “regole per l’applicazione della legislazione internazionale umanitaria” del 2001.

La diga di Krakhovka

La diga era già stata danneggiata in due precedenti incidenti: un possibile attacco ucraino a fine ottobre/inizio novembre e una probabile carica esplosiva russa che ha fatto saltare in aria parte della carreggiata sopra la diga l’11 novembre. Poi le cose sono peggiorate e la strada, che passa sopra la diga, è stata spazzata via tra il 2 e il 3 giugno, segnalando problemi strutturali dell’impianto.

Esperti avevano segnalato in precedenza che la diga era in stato di abbandono, e che le forze russe che occupano la struttura non provvedevano alla necessaria manutenzione. Non va esclusa quindi la possibilità di un cedimento strutturale non intenzionale, causato dall’incuria, tenendo anche conto che il livello dell’acqua del bacino di Kakhovka, dopo aver toccato a gennaio-febbraio un minimo eccezionale (14 m, nel sistema di riferimento al Baltico), a maggio ha raggiunto il massimo degli ultimi 30 anni (oltre 17,5 m), portandolo a una capacità di stoccaggio superiore a quella progettata.

Impatto sulla centrale nucleare

L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha dichiarato che l’evento non dovrebbe comportare rischi immediati per la sicurezza della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Alle 6 di mattina del giorno 7 il livello dell’acqua dell’invaso era calato di 2,8 metri rispetto a prima dell’incidente, raggiungendo la quota di 14,06 m.

“Se il livello scende sotto i 12,7 metri, la ZNPP non sarà più in grado di prelevare acqua dal bacino. Poiché l’entità dei danni alla diga è ancora sconosciuta, non è possibile prevedere se e quando ciò potrebbe accadere. Tuttavia, se l’attuale tasso di calo (5 cm per ora) dovesse continuare, il livello di 12,7 metri potrebbe essere raggiunto entro i prossimi due giorni. Per prepararsi a questa eventualità, la ZNPP sta continuamente rifornendo le proprie riserve idriche – tra cui il grande bacino di raffreddamento vicino all’impianto (sopraelevato rispetto al fiume) e i piccoli bacini di raffreddamento a pioggia con i canali adiacenti – utilizzando appieno l’acqua dell’invaso di Kakhovka finché ancora possibile.” L’impianto è inoltre dotato di speciali prese d’acqua fluttuanti che consentono alla struttura di prelevare acqua quando il serbatoio è a livelli bassi.

Quando saranno piene, queste riserve d’acqua saranno sufficienti a fornire all’impianto l’acqua necessaria per raffreddare i sei reattori e il combustibile esausto per diversi mesi. In ogni caso il personale della IAEA presso la centrale sta monitorando attentamente l’evolversi della situazione.

I sei reattori della ZNPP dal settembre 2022 non sono operativi, cinque sono in modalità di arresto freddo e un’unità rimane in arresto caldo (a temperatura e pressione elevate) per produrre vapore per operazioni necessarie sul sito, come il trattamento dei rifiuti radioattivi liquidi che vengono raccolti dai sei reattori.

Ricordiamo che anche durante lo stato di arresto i reattori hanno ancora bisogno di raffreddamento continuo per disperdere il calore prodotto dal materiale radioattivo, al fine di evitare la fusione del combustibile e un possibile rilascio di sostanze radioattive. Vanno inoltre continuamente raffreddate le piscine che contengono il materiale esausto e i generatori elettrici diesel di emergenza, qualora in funzione. Sul sito ci sono più di 3300 barre di combustibile esausto immagazzinate a freddo e quasi 2000 nelle piscine “a caldo”, per un totale di 2200 t di materiale radioattivo.

Gli “altri” problemi della centrale

Nel suo intervento al Consiglio di sicurezza il direttore Grossi ha presentato le condizioni necessarie per garantire la sicurezza e la protezione della centrale ZNPP a prevenire un disastro nucleare calamitoso per l’Ucraina, la Russia e altri paesi. Il rischio nucleare e radiologico deriva da tre principali problemi: l’insicura disponibilità di energia elettrica, la drastica diminuzione di personale e il coinvolgimento del sito in operazioni militari.

La centrale da mesi non produce energia, ma ne richiede per il corretto funzionamento e soprattutto per far funzionare le pompe di raffreddamento che impediscono la fusione del nocciolo nucleare dei reattori e disperdono il calore del combustibile esausto.

Delle quattro linee elettriche ad alta tensione (750 kV) che collegano la centrale nucleare alla rete due furono danneggiate nei primi giorni del controllo russo e da molti mesi l’impianto ha perso anche una terza linea; da marzo non è disponibile neppure la linea a 330 kV che collega la ZNPP alla vicina centrale elettrotermica ZTPP, sotto pieno controllo russo; pertanto la centrale può contare su una sola linea elettrica, con una critica riduzione della sicurezza in profondità della struttura.

L’impianto è dotato di 20 generatori diesel d’emergenza, in grado di fornire per qualche tempo la potenza necessaria nei casi di interruzione dell’alimentazione esterna, e di fatto hanno dovuto venir impiegati in sette occasioni dall’invasione russa a seguito di bombardamenti delle linee.

Il personale ucraino ha continuato a operare la centrale regolarmente anche sotto il controllo militare russo e la direzione della Rosatom, ma la situazione ha avuto un impatto negativo sul morale e la serenità del personale e il suo senso di sicurezza. Comunque il numero degli addetti è drasticamente diminuito e degli 11 mila inizialmente presenti sono rimasti circa 3500, sufficienti alla gestione attuale con i reattori in stato di arresto; tuttavia è venuto a mancare il personale più qualificato e vi è un deficit di competenze per gli interventi di mantenimento e riparazioni e di esperti per i controlli di sicurezza.

L’impianto nucleare di Zaporizhzhya si trova a Enerhodar, all’estremo limite della zona occupata dalla Russia e solo il Dnipro separa localmente le forze combattenti col suo letto di circa 5 km; la ZNPP potrebbe venirsi a trovare in prima linea nelle prossime operazioni militari, con i conseguenti gravissimi rischi.

Ci sono stati attacchi di artiglieria nei suoi pressi e una viva attività di guerriglia ucraina nella zona circostante. Nel corso del mese di maggio le autorità che controllano de-facto la regione sotto controllo russo hanno annunciato l’evacuazione di centinaia di civili da Enerhodar, indicando un’escalation dell’attività militare nella zona.

L’oblast di Zaporizhzhya è uno dei principali terreni di scontro dei due eserciti: le forze russe sono riuscite a occupare solo circa i 2/3 meridionali della regione, che è stata tuttavia formalmente incorporata nella Federazione russa il 30 settembre 2022, e quindi si trovano nella necessità di completarne l’acquisizione; di contro, uno degli obiettivi dell’annunciata contro-offensiva ucraina riguarda la liberazione dell’intero oblast fino al mar d’Azov, in modo da interrompere il collegamento via terra della Russia con la Crimea.

Data la gravità della situazione, il direttore della IAEA a seguito di intense consultazioni con i vertici dell’Ucraina e della Russia, ha “individuato cinque principi concreti per contribuire a garantire la sicurezza nucleare della centrale di ZNPP, al fine di prevenire un incidente nucleare e assicurare l’integrità dell’impianto:

  1. Non ci dovrebbero essere attacchi di alcun tipo da o contro l’impianto, in particolare contro i reattori, lo stoccaggio del combustibile esaurito, altre infrastrutture critiche o il personale;
  2. La centrale nucleare di ZNPP non dovrebbe essere utilizzata come deposito o base per armi pesanti (ad esempio lanciarazzi multipli, sistemi e munizioni di artiglieria e carri armati) o per personale militare impiegabile per un attacco dall’impianto;
  3. L’alimentazione dell’impianto con fornitura di potenza esterna non dovrebbe essere messa a rischio. A tal fine, occorre fare il possibile per garantire che l’energia elettrica rimanga sempre disponibile e sicura;
  4. Tutte le strutture, i sistemi e i componenti essenziali per il funzionamento sicuro della centrale nucleare di ZNPP devono essere protetti da attacchi o atti di sabotaggio;
  5. Nessuna azione deve essere intrapresa per compromettere la sicurezza dell’impianto.”

Queste condizioni appaiono più che ragionevoli e nell’interesse comune; una loro concordata implementazione da parte russa e ucraina può accendere un barlume di speranza per l’inizio di contatti dei responsabili dei due paesi su problemi vitali comuni, come appunto la sicurezza nucleare.

Alessandro Pascolini – Padova 8 giugno 2023

Dieci anni fa il disarmo chimico della Siria

In questo saggio del professor Pascolini il lungo percorso che ha portato al disarmo, l’eliminazione e lo smaltimento delle armi chimiche utilizzate dalla Siria nella guerra civile scatenata dalle rivolte del 2011 contro il regime.

Alessandro Pascolini (Università di Padova) – 3 maggio 2023


Molti sono i motivi per ricordare questo anniversario, prima di tutto perché si tratta dell’ultimo evento di disarmo raggiunto finora a livello mondiale. E di un disarmo significativo, che ha distrutto l’intero arsenale nazionale di una classe di armi “di distruzione di massa”, con l’eliminazione definitiva della completa filiera di acquisizione, dalla produzione degli agenti alla confezione dei proiettili finali. Importante anche lo stato disarmato, la Siria, coinvolta in una multiforme guerra civile e internazionale in cui stavano ripetendosi gravi attacchi chimici; altri aspetti importanti il fatto che il disarmo è avvenuto sotto il controllo e la guida delle istituzioni internazionali preposte, l’ONU e l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW), e la concorde volontà di tutta la comunità internazionale a perseguirlo fino in fondo, impostando, in un raro momento di razionalità politica, una diplomazia “creativa” e superando attriti su altre tematiche.

Sono passati solo dieci anni e sembra un altro mondo. L’attuale clima internazionale di dura competizione e di aperto conflitto non lascia speranze non dico di disarmo, ma neppure di qualche minima forma di limitazione degli armamenti e siamo invece in una fase di corsa per nuove e più numerose armi di ogni genere.

Il merito del disarmo chimico della Siria in tempi estremamente rapidi va soprattutto alla tenacia e al costante impegno dell’OPCW e dei suoi ispettori e all’azione del segretariato generale dell’ONU, in particolare della vice-segretario generale Sigrid Kaag, coordinatrice speciale della commissione costituita allo scopo, che è riuscita a negoziare sia con il governo che con gli insorti, con la diplomazia mondiale, nonché con organizzazioni ecologiste contrarie alle operazioni di trattamento in mare.

La particolare attenzione internazionale all’impiego di armi chimiche è dovuta alla loro speciale natura e al loro status nell’immaginario collettivo, che hanno portato a generare a livello mondiale un vero tabù all’uso di tali armi, concretizzato nel Protocollo di Ginevra del 1925, che proibisce l’uso di tali armi nei conflitti fra i firmatari, e nella quasi universale Convenzione per la proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinamento e uso di armi chimiche e per la loro distruzione (CWC) del 1995, con la creazione a L’Aia dell’OPCW “per assicurare l’attuazione delle sue disposizioni, comprese quelle relative a una verifica internazionale della sua osservanza”.

Primi attacchi chimici in Siria e l’ispezione dell’ONU

Il processo che portò al disarmo chimico della Siria prese avvio dal tragico susseguirsi di attacchi con agenti tossici nel corso della ferocissima e complessa guerra civile siriana, coinvolgente più fazioni e gruppi armati di vari paesi, a seguito della dura repressione delle proteste popolari del 2011 contro il regime di Bashar Hafez al-Assad. A partire dal 2012 cresce il numero di denunce di impieghi di armi chimiche dalle parti in lotta, segnalate da mezzi di comunicazione e da social media, denunciate da organizzazioni umanitarie, fino a dichiarazioni formali di alcuni stati. La Repubblica Araba Siriana (RAS), che continuava a negare il possesso di armi chimiche, non era allora membro della CWC, per cui l’OPCW non poteva svolgere indagini per verificare i fatti.

L’impiego di armi chimiche nei confitti, anche se in forma limitata, hanno grande impatto sulla popolazione e gravi ripercussioni politiche; pertanto sono frequenti illazioni e accuse del loro uso, spesso in malafede per calunniare e diffamare i nemici. Per accertare la sostanza delle denunce di attacchi chimici, nel novembre 1987 l’Assemblea Generale dell’ONU(UNGA) affidò al Segretario generale il compito di svolgere specifiche investigazioni a seguito della denuncia di un paese membro.

Il “meccanismo del Segretario generale” (SGM) viene riaffermato l’anno seguente dal Consiglio di sicurezza (UNSC), e il 4 dicembre 1990 l’UNGA ne approva le linee guida e le procedure operative. Il Segretario generale ha formalizzato accordi bilaterali per avvalersi del supporto tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (WHO) e dell’OPCW.
L’escalation chimica della guerra civile siriana risultava inaccettabile alla comunità internazionale, tanto da indurre il presidente Barak Obama ad annunciare (20 agosto 2012) una “linea rossa” per un possibile intervento militare americano nel conflitto a fronte di ulteriori impieghi di armi chimiche.

Anche a seguito dell’ultimatum americano, il 20 marzo 2013 il governo della RAS presenta al Segretario generale una richiesta formale di investigazione dell’attacco contro suoi militari successo il 19 marzo nel sobborgo Khan al-Assal di Aleppo. Attivato immediatamente il SGM, l’ONU crea, con la collaborazione di WHO e OPCW, una missione investigativa con il compito di verificare (senza accertare responsabilità) anche gli eventi di Sheikh Maqsoud (Aleppo) e Saraqueb (Idlib) denunciati da Francia, Inghilterra e USA.

Anche per difficoltà create dalla RAS, la missione giunge a Damasco solo il 18 agosto, e il giorno 21 è presente al gravissimo attacco chimico condotto in vari quartieri periferici di Damasco nella zona di Ghouta che produsse migliaia di vittime, inclusi molti bambini. Il Segretario generale, ottenuto (su pressioni russe) il permesso dalla RAS, ordina alla missione di dedicarsi primariamente allo studio di tale evento. Raccolta una considerevole quantità di informazioni e di campioni ambientali e biologici adeguati ai fini dell’ispezione, il 31 agosto la missione rientra a L’Aia e, come previsto dal SGM, il materiale raccolto viene inviato a differenti laboratori europei per analisi e valutazioni tecniche incrociate.

Il 13 settembre il Segretario generale dell’ONU trasmette al UNSC e all’UNGA il rapporto sugli eventi di Ghouta: tutti i risultati confermano un massiccio attacco con l’agente nervino sarin compiuto nelle prime ore del mattino. Il 12 dicembre la missione presenta il suo rapporto conclusivo, attestando l’uso di gas nervino anche a Khan al-Assal (20 morti e 124 intossicati), Saraqueb (12 intossicati, un morto), Jobar (intossicati 24 soldati) e Ashrafiah Sahnaya(attaccati 5 soldati). Come da mandato, la missione non attribuisce responsabilità degli eventi, ma mette in evidenza la disponibilità in Siria del potente aggressivo chimico e di mezzi per la sua dispersione in operazioni militari.

Adesione della RAS alla CWC e il piano di disarmo chimico

A fronte del grande impatto degli eventi di Goutha sull’opinione pubblica mondiale, con sostanziali sospetti di responsabilità governativa della strage, al summit G20 di Mosca (5 e 6 settembre 2013) Russia e USA concordano sulla necessità di porre le armi chimiche siriane sotto una qualche forma di controllo internazionale; il 9 settembre la Russia propone alla RAS un piano di disarmo chimico, che verrà rielaborato con gli USA.

Il 14 settembre la RAS deposita il documento di accessione alla CWC, impegnandosi a ottemperare immediatamente agli impegni previsti dalla convenzione, e, a partire dal 19 settembre, presenta all’OPCW informazioni sul proprio programma militare chimico, che risulta particolarmente rilevante: 51 strutture di immagazzinamento, produzione, ricerca e sviluppo, 1230 munizioni non riempite e 1308 t di agenti chimici (1047 t fra agenti e precursori e 261 t di materiale grezzo); i precursori sono sostanze meno tossiche che miscelate producono gli agenti finali. Gli agenti chimici dichiarati sono: acido cloridrico, iprite e precursori di iprite, precursori degli agenti nervini sarin (isopropanolo e agente DF), VX e VM (precursori A, B, BB e BBsale). L’iprite e i precursori dei nervini sono di massima pericolosità (“categoria 1” della CWC), le altre sostanze di “categoria 2” o di “categoria 3”. L’inventario richiederà un continuo aggiornamento (non ancora completamente verificato).

Ricordiamo che l’iprite è l’agente tossico più impiegato nei conflitti, a partire dalla prima guerra mondiale, mentre gli agenti nervini sono gli aggressivi chimici più letali mai sviluppati.

Tenendo conto della situazione eccezionale della Siria, il piano russo-americano di disarmo (messo a punto da Sergey Lavrov e John Kerry) richiedeva significative deviazioni dalle regole e procedure della CWC, in particolare: completamento del disarmo entro giugno 2014 secondo un preciso programma temporale, invece di scadenze pluriennali; possibilità di ispezioni in ogni sito in Siria, e di “speciali” ispezioni senza preavviso; informazione immediata dei dati e sullo svolgimento del piano a tutte le parti della CWC; inclusione nel piano di verifica e distruzione anche dei centri di ricerca e sviluppo; creazione di una commissione congiunta OPCW-ONU per sovrintendere alle ispezioni e operazioni; un processo “ibrido” di disarmo da svolgersi sia in Siria che all’estero, mentre la CWC impone che il disarmo avvenga completamente all’interno del paese interessato e proibisce il trasporto degli agenti fuori della sua giurisdizione; eliminazione di sostanze chimiche duali anche di ampio uso civile, di cui la CWC permette il riutilizzo; distruzione di tutti gli impianti connessi alla produzione e ricerca sulle armi chimiche, mentre la CWC consente la loro conversione a scopi civili; ricorso a contributi internazionali in mezzi e servizi per far fronte alle spese ispettive e per la distruzione delle armi fuori dalla Siria.

Le “anomalie” del piano richiedono un duplice passaggio formale: approvazione sia da parte dell’OPCW che del UNSC, il che avviene il 27 settembre, entrambe all’unanimità. Particolarmente importante è la Risoluzione 2118 del Consiglio di Sicurezza, che proietta il caso specifico nel contesto globale, dichiarando l’uso di armi chimiche costituire una minaccia alla pace e sicurezza mondiali, condannando gli attacchi chimici in Siria e ritenendo i responsabili perseguibili penalmente, decidendo di imporre le misure previste dal cap VII della Carta delle Nazioni unite nel caso di inadempienze. Poiché la risoluzione è vincolante per tutti i paesi membri dell’ONU, essa rende di fatto universale il bando delle armi chimiche, estendendolo anche ai paesi non ancora parte della CWC, e riconosce la natura di crimine di guerra per il loro uso in qualsiasi contesto.

Il 16 ottobre viene costituita la missione congiunta (OPCW-UN Joint Mission in Syria – JMIS) con coordinatore speciale la vice-segretario generale dell’ONU Sigrid Kaag(olandese); ella, dopo un’ispezione in Siria il 21 seguente, costituisce basi logistiche a Damasco e a Nicosia e crea al porto di Latakia il centro di raccolta dei materiali e le attività di verifica, analisi, inventario dei materiali e confezione dei container per il trasporto marittimo. In Siria verrà mantenuto il personale strettamente necessario per specifiche operazioni; nella prima fase vengono impegnati 26 esperti OPCW e 50 persone dell’ONU (personale di sicurezza, logistica, medici e interpreti), le forze della missione variando in numero (fin oltre 100) e competenze a seconda degli impegni.

Il piano richiede uno stretto scadenziario temporale, per prevenire possibili ulteriori impieghi di armi chimiche e per realizzare il disarmo siriano prima che la guerra civile potesse avere degli imprevedibili sviluppi che avrebbero potuto renderlo del tutto o in parte impossibile.

Le fasi operative del disarmo

Le prime operazioni riguardano l’ispezione delle strutture segnalate e il controllo dei materiali, anche per eliminare urgentemente la capacità di produzione e dispersione di nuovi agenti tossici. La JMIS si trovò immediatamente a confrontarsi con la complessità della guerra civile con esposizione ad attacchi e le conseguenti limitazioni per motivi di sicurezza, per cui alcuni siti non risultavano raggiungibili. Comunque, al 1° novembre erano state ispezionate 39 delle 41 strutture segnalate e sorvegliata e certificata la distruzione funzionale di tutta la strumentazione delle strutture di produzione e riempimento; al 6 dicembre verificata la distruzione, nelle varie sedi, del materiale di categoria 3, inclusi tutti i proiettili per gli agenti chimici, ed entro dicembre distrutte tutte le unità mobili di riempimento.

Intanto veniva definito il piano di distruzione delle sostanze tossiche, da attivare nel pieno rispetto della salute e dell’ambiente. Per l’eliminazione degli agenti chimici vi sono essenzialmente due metodologie, una basata sul “fuoco” e una sull'”acqua”.

L’incenerimento è il metodo più diretto e veloce e non implica reazioni chimiche; gli agenti in fase liquida vengono trattati in due tempi: dopo una prima combustione a circa 1.500°C e una post-combustione a circa 1.100°C oltre il 99% del materiale viene distrutto e si raggiunge una completa mineralizzazione dei composti organici. Gli ossidi e i gas acidi generati vengono rimossi con lavaggi; eventuali residui solidi sono eliminabili come normali scarti di produzione industriale.

L’idrolisi tratta gli agenti con acqua calda (non necessariamente bollente) o idrossidi alcalini, a seconda dei casi, per scindere le molecole originarie in frammenti più piccoli e innocui; gli effluenti possono rientrare fra i materiali proibiti dalla CWC, nel qual caso vengono sottoposti a un secondo ciclo di degradazione mediante biodegradazione, ossidazione acquosa supercritica o trattamento con sali d’argento in acido nitrico, ovvero incenerimento. I prodotti di reazione vengono ridotti allo stadio di normali scorie industriali.

Mentre l’incenerimento dell’isopropanolo non pone particolari problemi e andava eseguito in Siria, il piano di trattamento degli agenti chimici fuori dalla Siria prevede l’incenerimento degli agenti fluoruro d’idrogeno, A, B, BB e BBsale (categoria 1) e delle sostanze inorganiche e organiche di categoria 2 e invece l’idrolisi dell’iprite e del DF; gli effluenti dell’idrolisi da eliminare mediante incenerimento. Per l’incenerimento vengono messi a disposizione impianti dal Regno Unito (a Ellesmere e Runcorn), dalla Finlandia (a Riihimäki), dagli USA (a Houston) e dalla Germania (a Münster); per l’idrolisi, non essendosi trovati impianti a terra disponibili, il 28 novembre viene accolta la proposta americana per il trattamento in mare aperto su una nave (la Cape Ray) opportunamente attrezzata con impianti Field Deployable Hydrolysis System – FDHS e dotata dei necessari reagenti e acqua dolce, nonché dei contenitori per gli effluenti, in modo da evitare sversamenti in mare.

Scelto e attrezzato il porto di Latakia per la concentrazione dei materiali da trattare fuori dal paese, la Danimarca e la Norvegia mettono a disposizione per il trasporto ai punti di distruzione le navi Ark Futura (danese) e Taiko (norvegese), che permettono il carico tramite rampe rotabili; il governo italiano fornisce il porto di Gioia Tauro attrezzato per il movimento di materiali rischiosi di classe 6 per il trasferimento dei materiali fra le navi.

Le navi nell’attesa di completare il loro carico restano in acque internazionali al largo di Cipro con la protezione di una scorta internazionale di vascelli militari sotto la direzione della reale marina danese (operazione RECSYR – REmoval of Chemical weapons from Syria). Per il coordinamento delle operazioni le marinerie coinvolte si incontrano con funzionari dell’OPCW e della JMIS il 11-13 dicembre a Stuttgart e il 27 dicembre a Mosca. Sono coinvolte la fregata norvegese Helge Ingstad, la nave supporto danese Esbern Snare, la fregata inglese Montrose (in seguito sostituita dall’incrociatore lanciamissili Diamond), l’incrociatore lanciamissili russo Pyotr Veliky e la fregata lanciamissili cinese Yan Cheng. Le navi mercantili ricevono protezione militare fino al completamento dello scarico degli agenti chimici nei vari porti di destinazione finale.

Il problema maggiore fu il lento trasporto degli agenti chimici dai vari depositi al porto, operazione di cui era responsabile la RAS; nonostante l’assistenza russa e americana, con fornitura di speciali container e mezzi di trasporto, si ebbero sei mesi di ritardo sul piano: solo il 7 gennaio 2014 vi fu una prima modesta (4,5%) consegna di agenti C1 ad Ark Futura e il seguente 27 la prima consegna (2,5%) di agenti C2 a Taiko; le consegne parziali continuano lente nei mesi successivi e la Taiko l’8 giugno parte per la Finlandia e il Texas. Per Ark Futura le consegne di agenti C1 e C2 sono completate il 23 giugno e la nave si reca a Gioia Tauro, ove trasborda circa 600 t di agenti C1 sulla Cape Ray (1-2 luglio) e quindi parte per l’UK e la Finlandia.

La Cape Ray era partita dagli USA il 27 gennaio e, giunta il 13 febbraio nella base americana di Rota in Spagna, nell’attesa del carico degli agenti da trattare esegue prove a mare per accertare fino a quale forza di mare possono avvenire in piena sicurezza le operazioni di neutralizzazione e l’immagazzinamento degli agenti tossici, dei reagenti e degli effluenti.

Il 9 luglio iniziano le operazioni di neutralizzazione in acque internazionali a sud di Creta, proseguite con due unità FHDS lavorando con più turni 24 ore al giorno per 6 giorni la settimana. Fortunatamente il mare rimane sempre calmo e il tempo bello e il processo è completato il 17 agosto, in soli 42 giorni (invece dei 60–90 giorni previsti), con il trattamento di oltre 14 t di agenti per giorno lavorativo. La Cape Ray si dirige poi agli impianti di smaltimento degli effluenti in Finlandia e a Brema.

Per assicurare la sicurezza della Cape Ray durante le operazioni nel Mediterraneo, a bordo erano imbarcati una squadra per la difesa CBRN e un gruppo di forze speciali della marina USA con un elicottero SH-70B Seahawk ad assicurare anche la possibilità di evacuare la nave in caso di gravi incidenti. La protezione militare delle operazioni in mare viene garantita da una squadra aereonavale sotto il comando della Combined Task Force 64 della Sesta flotta americana, comprendente oltre ai mezzi statunitensi le fregate Yan Cheng cinese, Salih Reis turca, Schleswig-Holstein tedesca e Leopold I belga, un aereo di ricognizione e controllo navale portoghese con base a Sigonella, i pattugliatori Comandante Foscari italiano e Infanta Elena spagnolo e un sommergibile greco. Era prevista anche la partecipazione dell’incrociatore russo, ma la NATO sospese (in aprile) la collaborazione militare con la Russia a seguito dell’invasione della Crimea, e il Pyotr Veliky continuò la protezione del convoglio mercantile. Nelle due operazioni furono coinvolti oltre 2000 uomini delle varie forze militari.

Il 30 settembre 2014 il Segretario generale dell’ONU dispone la chiusura della missione congiunta, essendosi raggiunti gli obiettivi proposti: completate le operazioni in Siria e raggiunta la totale distruzione degli agenti di categoria 1, dell’87,8% di quelli di categoria 2 e del 4,5% degli effluenti; il materiale rimanente si trova al sicuro negli impianti di trattamento che sarà il 4 gennaio 2016.

Il tempismo della distruzione dell’arsenale chimico siriano si è rivelato critico, dato il tragico aggravamento della situazione politica e militare a partire dalla seconda metà del 2014: lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (DAESH) espande la sua penetrazione in Siria, fino a occupare quasi la metà del territorio; nel settembre si forma la Coalizione globale contro il DAESH (85 paesi guidati dagli USA) e iniziano le azioni militari anche in Siria, che restano intense fino al 2017; la Russia dal settembre 2015 intraprende una vasta azione militare contro gli oppositori del governo, con pesanti bombardamenti aerei, lancio di missili e con truppe sul campo, fino a quadruplicare il territorio controllato della RAS, ove stabilisce basi permanenti aeree e una navale.

Nel quinquennio seguente si aggrava la crisi dei rapporti dei paesi occidentali e la Russia a seguito dell’occupazione della Crimea e l’inizio dei combattimenti nel Donbass con significativi riflessi negativi sulla questione chimica siriana: il governo della RAS, pienamente sostenuto dalla Russia, riduce la collaborazione con l’OPCW a completare e chiarire le informazioni sul proprio programma chimico e a fornire assistenza per le missioni sul campo e la Russia blocca le azioni del Consiglio di sicurezza e dell’OPCW per le indagini sulle responsabilità di nuovi attacchi chimici (oltre 150 segnalazioni nel periodo 2015-2022) e impedisce la condanna dei responsabili (spesso militari della RAS).

Dal 15 al 19 maggio prossimi si svolgerà a L’Aia la quinta conferenza di revisione della CWC e la questione siriana sarà uno dei temi caldi in discussione, dato che secondo l’OPCW “la dichiarazione sottoposta dalla RAS non può essere ancora considerata accurata e completa” (24 gennaio 2013) e il governo della RAS “non riconosce l’Investigation and Identification Team dell’OPCW e i suoi rapporti precedenti e futuri” (2 febbraio 2023).

Dopo l’incapacità della quarta conferenza di revisione della CWC (ottobre 2018) a raggiungere l’approvazione di un documento finale condiviso, è estremamente importante che i lavori della prossima conferenza siano in grado di rafforzare la Convenzione e di ridare respiro alla diplomazia per il controllo degli armamenti in questo momento di dura contrapposizione fra le potenze mondiali.

Padova 3 maggio 2023

Il mondo ha urgente bisogno di cambiare rotta

La dichiarazione finale al termine del 23°Congresso mondiale di IPPNW

Qua la traduzione di alcuni passaggi del documento.

E’ una dichiarazione drammatica a tutto tondo, e sono tanti gli scenari di crisi che IPPNW nel corso del suo 23° Congresso ha sottolineato. Dal recente ripetersi del conflitto in Sudan e il susseguirsi di guerre che investono il continente africano alla guerra che in Ucraina, al secondo anno dall’invasione, ha già colpito più di 20 mila civili e milioni di sfollati in altri Paesi. E ricordando come nonostante l’impatto tragico della passata pandemia la comunità umana non abbia saputo rispondere con la capacità globale di affrontare situazioni di emergenza sanitaria, anzi riportando il divario tra nazioni ricche e povere anche nelle azioni di supporto, cura e distribuzione dei vaccini.

“Il mondo nel 2023 affronta due crisi esistenziali gemelle che sono state esacerbate da una pandemia globale da cui dobbiamo ancora riprenderci completamente. Siamo a maggior rischio di guerra nucleare che in qualsiasi momento dalla guerra fredda degli anni ’80. E il ritmo accelerato della crisi climatica, guidato dalle emissioni di carbonio derivanti dalla combustione incontrollata di combustibili fossili, sta portando eventi meteorologici estremi, interruzioni agricole, innalzamento del livello del mare e malattie trasmesse da vettori in ogni angolo del mondo. I milioni di morti per Covid-19 in un periodo di due anni non solo hanno testato la capacità globale di affrontare un’emergenza sanitaria pubblica su così vasta scala, ma hanno anche esposto le disuguaglianze nell’accesso ai vaccini e ai trattamenti tra nazioni ricche e in difficoltà. Non sorprende che il Doomsday Clock sia stato recentemente ripristinato a 90 secondi prima di mezzanotte, il più vicino che sia mai stato alla catastrofe globale.”

E il conflitto in corso in Europa ha accresciuto ancora di più l’ipotesi di un confronto con armi anche nucleari.

“Eppure i gravi impatti globali di una guerra che ha portato la Russia in conflitto diretto con gli Stati Uniti e la NATO impallidiscono rispetto a quello che accadrebbe se la soglia nucleare fosse superata. Che siano usati in Ucraina, nell’Asia meridionale, dove due stati dotati di armi nucleari, India e Pakistan, hanno combattuto quattro guerre a tutti gli effetti, o durante qualsiasi altro conflitto, l’uso di armi nucleari, per qualsiasi motivo, quasi certamente si trasformerebbe in una guerra nucleare che ucciderebbe milioni di persone a titolo definitivo. La guerra nucleare causerebbe un disastro climatico di un altro tipo, immergendo il mondo in un inverno nucleare in cui l’agricoltura crollerebbe e la scarsità di cibo minaccerebbe miliardi di persone di fame, non importa quanto fossero lontane dal conflitto stesso.”

Anche al nucleare civile IPPNW ha dato una riflessione del tutto critica e allarmata.

“L’energia nucleare, che è una risposta costosa, inefficace e pericolosa alla crisi climatica, alimenta anche la proliferazione nucleare aumentando inestricabilmente i materiali fissili e la capacità di produrli. Come stiamo vedendo in Ucraina, i reattori nucleari sono obiettivi militari vulnerabili, essenzialmente enormi disastri radiologici pre-posizionati in attesa. Investimenti malriposti nell’energia nucleare, oltre ad esacerbare questo pericolo, ritardano il rapido aumento delle energie rinnovabili, l’aumento dell’efficienza energetica e lo stoccaggio dell’energia.

La spesa per armi militari e nucleari devia enormi risorse e crea enormi costi di opportunità che diminuiscono e ritardano l’azione per il clima e rubano anche risorse da molte altre aree di necessità umana e ambientale, tra cui salute, alloggio e istruzione. La militarizzazione e i conflitti armati alimentano tensioni che diminuiscono la cooperazione internazionale in molte aree, tra cui l’azione per il clima e il disarmo.

E ancora una volta, la conclusione sottolinea come rimane la prevenzione l’unica risorsa capace di far fronte alle sfide globali del nostro secolo: la possibile catastrofe nucleare e la crisi climatica.

“Come professionisti della salute, abbiamo imparato decenni fa che non ci può essere una risposta medica a una guerra nucleare. Ora stiamo imparando che la nostra capacità di rispondere efficacemente alle emergenze estreme di salute pubblica precipitate e moltiplicate per le alterazioni causate dall’uomo al clima mondiale, viene messa a dura prova. Inoltre, quelli che sono più vulnerabili agli effetti della crisi climatica sono più spesso quelli senza le risorse per mitigare il danno. Lo vediamo in Africa e in altre parti del mondo post-coloniale, dove l’accesso alla tecnologia, all’assistenza sanitaria e ai servizi di base sono nel migliore dei casi inadeguati e dove le nazioni ricche continuano a sfruttare i paesi svantaggiati per risorse, come l’uranio per le armi nucleari.

La nostra responsabilità è quella di prevenire ciò che non possiamo curare. IPPNW si dedica nuovamente in questo 23° Congresso Mondiale, a Mombasa, in Kenya, a un mondo abitabile libero dalla minaccia dell’estinzione nucleare e della catastrofe climatica.”


“The world urgently needs to change course”Il testo completo della dichiarazione finale


Qua sotto il “Mombasa Appeal” – l’appello per la pace e la prevenzione della guerra nucleare


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Mombasa IPPNW Appeal

Mombasa Appeal per la pace e prevenzione della guerra nucleare

E’ terminato oggi, 30 aprile a Mombasa (Kenya), il 23° Congresso mondiale di IPPNW (qua l’annuncio del Congresso e la pagina con il programma degli eventi) al termine del quale, stante il continuo aggravarsi del conflitto in Ucraina, è stato emesso questo appello urgente.

In basso nella pagina è disponibile il documento originale in formato PDF. Foto originali di Bimal Khadka.


“Al nostro 23° Congresso Mondiale a Mombasa nell’aprile 2023, noi, International Physicians for the Prevention of Nuclear War, abbiamo discusso sui rischi e le conseguenze imminenti dell’attuale situazione di crisi sul nostro pianeta. La guerra in Ucraina comporta costi enormi principalmente per le persone, ma non solo in Ucraina, e provoca sofferenze indicibili. Così tanti civili e soldati di entrambe le parti hanno perso la vita, la salute e i mezzi di sussistenza. Inoltre, l’approvvigionamento alimentare globale ha già sofferto e i prezzi dei beni di prima necessità stanno aumentando. Secondo i dati attuali, la fame in Africa rischia di aumentare del 117% se la guerra non viene fermata immediatamente.

Fondamentalmente c’è un rischio reale e crescente che il mondo entri in una guerra nucleare nel prossimo futuro. Ad ogni giorno della guerra in corso in Ucraina, questo rischio aumenta.

Allo stesso tempo, il conflitto su Taiwan minaccia di intensificarsi ulteriormente, compreso il pericolo di una guerra nucleare che coinvolge Cina e Stati Uniti.

La guerra nucleare quasi certamente non rimarrà limitata. I giochi di pianificazione militare portano regolarmente all’escalation totale e all’annientamento reciproco una volta utilizzate le armi nucleari.

Il principio della deterrenza nucleare, sostanzialmente immutato dalla Guerra Fredda, con la credibile minaccia di mutuo annientamento totale dovuto al suo fallimento, minaccia l’esistenza umana.

Una sola bomba può distruggere completamente il nucleo urbano di una grande città, con centinaia di migliaia di morti, feriti e contaminati. L’uso di molte bombe nucleari, come è probabile in una guerra nucleare, non solo porterebbe a molti milioni di morti e feriti, ma distruggerebbe le infrastrutture chiave, le vie di trasporto, l’approvvigionamento alimentare e il sistema sanitario. Il recupero richiederebbe decenni. Noi medici dobbiamo chiarire: in caso di guerra nucleare, non ci sarà assistenza medica. Non saremo in grado di aiutarvi – e neanche noi stessi!

Mentre già l’uso di meno di 100 armi nucleari avrebbe gravi ripercussioni sulla produzione alimentare globale e causerebbe fino a 2 miliardi di vittime della fame, le conseguenze umanitarie e i rischi di una guerra nucleare totale sarebbero devastanti. Sia la Russia che gli Stati Uniti possiedono oltre 5000 armi nucleari dispiegabili. L’utilizzo anche solo di una parte di essi comporterebbe un cambiamento climatico con un calo sostenuto della temperatura media di oltre 10°C. La vita allora non sarebbe più possibile in gran parte del pianeta, l’inverno nucleare.

In una guerra nucleare non ci sono vincitori, solo vinti. Allora i milioni di vittime immediate saranno i fortunati, poi i vivi invidieranno i morti.

Al massimo paragonabile alla situazione del 1962 e al secondo picco della Guerra Fredda negli anni ’80, l’umanità oggi si trova a un bivio. Troverà la strada per tornare alle sue nobili capacità di riconciliazione, cooperazione ed empatia, oppure seguirà le sue inclinazioni più oscure di avidità, vendetta e distruttività divorante.

Come medici, ci rivolgiamo quindi a coloro che hanno la responsabilità della sopravvivenza di tutti noi a nome di tutta l’umanità: gli avversari nella guerra, il presidente Putin e il presidente Zelensky; i governi degli stati dotati di armi nucleari, in particolare i presidenti Biden e Xi Jinping; e i governi dei paesi della NATO e tutti coloro che sono coinvolti nel conflitto in qualsiasi modo.

Chiediamo:

  1. Un cessate il fuoco immediato.
  2. Il ritiro immediato di tutte le forze d’invasione.
  3. L’astensione da tutte le misure che portano a un’ulteriore escalation della guerra.
  4. La rinuncia dichiarata all’uso delle armi nucleari da parte di tutti gli Stati dotati di armi nucleari
  5. L’avvio di seri negoziati su una soluzione pacifica del conflitto in Ucraina.

Esistono numerose iniziative e proposte che potrebbero servire da base per tali negoziati.

A causa della fondata preoccupazione che il conflitto su Taiwan si trasformi anche in una guerra che minaccia l’umanità, le nostre richieste 3, 4 e 5 si applicano analogamente anche qui.

Chiediamo inoltre che le potenze nucleari avviino negoziati in buona fede su misure efficaci per porre fine alla corsa agli armamenti nucleari nel prossimo futuro e per raggiungere il completo disarmo nucleare, come si sono impegnate a fare nell’articolo 6 del Trattato di non Proliferazione delle armi nucleari.

Per contrastare efficacemente il pericolo di annientamento nucleare, proponiamo che tutti gli Stati – in particolare quelli che finora hanno fatto affidamento sull’illusoria sicurezza fornita dalle armi nucleari – firmino il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari.

A tutte le persone con menti creative e capacità di moderazione, facciamo appello: poniamo fine alla spirale mortale dell’escalation e rientriamo in una convivenza pacifica.

Questa potrebbe essere l’ultima possibilità per noi umani di chiudere il vaso di Pandora e optare per la sopravvivenza comune invece che per l’annientamento reciproco.

E una volta superata l’attuale crisi, dobbiamo tornare agli altri pericoli esistenziali che l’umanità deve affrontare: la crisi climatica, il degrado ambientale e il continuo divario tra ricchi e poveri. Avremo bisogno di tutte le abilità e virtù umane per garantire la sopravvivenza a lungo termine sul nostro meraviglioso pianeta.”

 

Qua il documento originale:

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